Ogni pensiero vola

Intervista a Nicolás Arispe

di Valentina Vignoli

Iniziamo dal titolo: “Lasciate ogni pensiero o voi ch’intrate”. È la frase che anticamente era incisa sulla bocca dell’orco del Parco dei mostri di Bomarzo (dove ora invece si può leggere “Ogni pensiero vola”). Come mai hai scelto proprio questa frase, cosa significa per te e come si inserisce nel libro? E perché ti sei ispirato proprio al Parco dei mostri di Bomarzo?

N: Al centro di questo libro c’è un sogno: tutto quello che accade, accade nel sogno della protagonista. Il racconto in sé è un sogno (o meglio, un incubo).
La frase del titolo invita a mettere da parte i pensieri per entrare nel territorio dei sogni, un territorio che esula dal dominio della ragione, del pensiero, della coscienza (“Il sonno della ragione genera mostri” direbbe Goya).
Ma c’è un’altra cosa interessante in questa frase: si tratta di un ordine. Non possiamo scegliere come entrare in questo territorio, né possiamo scegliere di non sognare. Tutto ciò che accade alla protagonista del libro è irrazionale e, in un certo senso, surreale. Il pensiero logico è rimasto fuori.
In quanto all’orco del Parco di Bomarzo, è entrato nel libro perché da una parte mi ha fornito questa idea e questa frase (ovviamente derivata da Dante), dall’altra perché molte delle scene sono ispirate a opere oniriche, bizzarre, surreali (si vedano i riferimenti a De Chirico, Goya, ai trattati di stregoneria medievale ecc.).
E poi perché sono ossessionato dal manierismo italiano: credo che il manierismo in quanto stile rappresenti sempre un momento di rottura nel modo di rappresentare, che si esprime tramite l’alterazione dei canoni stabiliti – me ne sono servito anche in passato. Ad esempio, in La madre e la morte/La perdita cito la grotta del Buontalenti, nella scena in cui la madre attraversa la montagna.
Sono anni che studio il Parco dei mostri di Pirro Ligorio, allo scopo di trarne qualche opera, prima o poi. In questo caso ho avuto la possibilità di includere l’orco, che è forse il più famoso dei suoi mostri.
A titolo di curiosità, posso aggiungere che il Parco di Bomarzo è stato oggetto di una disputa nella storia argentina: un autore molto valido, sebbene talvolta poco considerato, Manuel Mujica Lainez, scrisse un romanzo intitolato Bomarzo. È un romanzo sulla vita del Conte Orsini, scritto in seguito a una visita dello scrittore al parco, che lo colpì profondamente.
Dal romanzo, [il compositore] Alberto Ginastera ricavò un’opera lirica omonima, che debuttò a Washington DC nel 1967 suscitando grande clamore, e la cui messa in scena a Buenos Aires venne proibita dalla censura della dittatura militare che governava il Paese in quegli anni.

I tuoi ultimi libri (La madre e la morte/La perdita e Il libro sacro), per quanto molto diversi tra loro, avevano un andamento narrativo. Questo invece sembra più un susseguirsi di scene, un viaggio il cui filo rosso è la donna-uccello che fugge. Come ti è venuta l’idea per il libro e qual è stata la sua genesi?

N: Il libro ha un suo andamento lineare, costituito dalla fuga costante della donna-uccello, che ho scelto di rappresentare secondo lo schema classico di introduzione-svolgimento-conclusione, ma è vero che l’unica relazione tra le diverse scene è il passaggio dall’una all’altra, e non sono connesse da alcun vincolo razionale. Il meccanismo è sempre lo stesso: la donna-uccello, nel tentativo di fuggire, cade in una nuova trappola. Ho cercato di conferire al racconto un’atmosfera da incubo. Ogni volta che la donna-uccello riesce a fuggire da una scena, rimane intrappolata nella successiva.
L’ispirazione mi è venuta da un quadro di Jean-François Millet, Contadine che portano fascine di legna. Inizialmente avevo pensato di narrare i sogni di questi personaggi obbligati a un lavoro sfiancante.
Ma poi ho finito per invertire il punto di vista, e il lavoro estenuante di quelle donne si è trasformato nell’incubo di qualcun altro. A quel punto è entrata in scena la figura dell’uccello. L’idea, di per sé, è semplice: il terribile incubo della donna-uccello è fatto dei tormenti della nostra vita quotidiana. L’uccello, la donna-uccello, popola il suo incubo con il nostro quotidiano (l’emarginazione nel momento in cui viene espulsa dalla cultura, lo stigma sociale di cui soffrirono le donne accusate di stregoneria, la paura della morte, il carcere, rappresentato dalla reclusione all’interno dell’orco di Bomarzo, il terrore di fronte agli aspetti più incontrollabili della natura, come ad esempio la caduta nelle profondità degli abissi).
Ovviamente tutti questi tormenti sono raccontati attraverso metafore: è il contesto dell’incubo a consentircelo.

Come mai hai scelto di raccontare questa storia senza parole? Hai cercato di comporre un testo a un certo punto della lavorazione o si è trattato fin dall’inizio di un silent book?

N: Già da due libri a questa parte ho invertito il mio processo di lavorazione. In passato, prima scrivevo e poi disegnavo. Nel libro precedente a Lasciate ogni pensiero… ho cambiato metodo: prima ho disegnato tutta la storia e poi ho scritto i testi. E ora mi sono spinto ancora oltre, scegliendo di prescindere completamente dal testo. Ho fatto qualche schizzo, composto le scene e il soggetto, poi sono passato ai disegni.
Ci sono stati momenti in cui ho pensato di aggiungere un testo. Ma, tentativo dopo tentativo, sentivo che le parole non apportavano nulla, e che la storia fluiva meglio senza. Credo che in un certo senso il silenzio, che è certamente una risorsa del testo (così come della musica), contribuisca a dare alla storia una maggiore tensione drammatica e un senso di vertigine.

Come in altri tuoi libri, la protagonista è un essere zoomorfo. Ci puoi spiegare cosa ti affascina di questo tema? E, in questo caso, come mai hai scelto proprio un uccello, e di quale uccello si tratta?

N: Da un lato, gli animali sono da sempre i protagonisti di innumerevoli favole, che a me interessano come genere letterario, per come pongono problemi morali in maniera piuttosto diretta.
Dall’altro, nella storia delle immagini gli animali appartengono a una tradizione che li vede impersonare determinati stereotipi: l’asino è stupido, il maiale è ingordo, il leone è maestoso, il corvo ingannatore, la volpe intelligente e maliziosa ecc.
Sono molto affascinato dalla creazione di questi stereotipi, in cui si cristallizzano i pensieri e i pregiudizi che soggiacciono alla produzione culturale.
Per quanto mi riguarda, cerco di usarli a volte in positivo e altre in negativo, a seconda di ciò che desidero raccontare.
In La madre e la morte, ad esempio, la madre è una volpe, così come Giona nel Libro sacro. Entrambi i personaggi sono però tutt’altro che astuti. Sono intelligenti, questo sì: desideravo confutare l’idea secondo cui l’intelligenza procederebbe di pari passo con una certa cattiveria.
Nel caso della donna-uccello, è rappresentata da un uccello che in Argentina chiamiamo Benteveo común. Si tratta di uccelli molto comuni, che popolano in migliaia di esemplari sia le città sia le campagne, e chi ama dormire li odia, perché iniziano a cantare molto presto la mattina.
Per me, in un certo senso, rappresentano la massa, l’individuo comune. Incrociati con una delle contadine di Millet, incarnano una figura popolare.
E poi, ovviamente, gli uccelli vengono immediatamente associati al concetto di volo, di libertà, un elemento che aggiunge tensione alla figura della lavoratrice incatenata.

Come dicevamo, il libro è una sequenza di scene, ognuna delle quali contiene almeno un riferimento al mondo dell’arte, del cinema, della storia (De Chirico, i bestiari e i manuali sulle streghe medievali, Bergman, Grünewald, Malevič, Millet). Queste citazioni, tuttavia, non seguono uno sviluppo cronologico né – apparentemente – logico. Il che è effettivamente tipico di un sogno. Come hai scelto le immagini e le citazioni? Sono i punti saldi del tuo pensiero e del tuo lavoro, che hai voluto raccogliere in quest’opera? O sono nate una dall’altra durante la lavorazione del libro?

N: Esatto: le citazioni non seguono un ordine cronologico né logico. Da un po’ di tempo a questa parte, mi sono avvicinato alle idee di Georges Didi-Huberman, secondo cui trovarsi davanti a un’immagine significa trovarsi davanti al tempo. A suo avviso le immagini, salvate nella memoria e nell’inconscio collettivo, ritornano ciclicamente nella storia delle culture, in base all’evoluzione delle comunità. Mi interessa anche l’uso di queste immagini inteso come atto di profanazione, secondo il pensiero di Giorgio Agamben: sottrarle ai loro luoghi sacri e consacrati per disarmarle, ripensarle, dar loro un nuovo significato.
Per questo mi interessa leggere queste immagini in due sensi: come arcani (ovvero come sintesi di determinati fenomeni sociali e culturali: le streghe, gli animali, la morte, il diavolo ecc.) e come schemi di riflessione (la condizione della donna nei diversi periodi storici, quella dei lavoratori – come nel caso della contadina – o la rappresentazione dell’ignoto – come nei bestiari medievali ecc.). Il motivo per cui lavoro con questi riferimenti è perché credo che ciascuno rimandi a qualcosa che il lettore ha già nella propria testa e in cui può riconoscersi (o con cui può scontrarsi).

E adesso parliamo della tua tecnica. Puoi raccontarci come lavori?

N: La mia tecnica è molto semplice, uso tre strumenti: un portamina da 0,5 mm con grafite dura, una gomma per cancellare e una penna Rotring da 0,2 mm.
Lavoro sempre sullo stesso supporto: fogli Fabriano ruvidi da 160 g/m2.
Per ogni pagina che intendo realizzare, sviluppo sempre il progetto in piccoli quadri.
Inoltre, faccio sempre moltissime ricerche, accumulando immagini, film, testi, note di diario ecc. che in qualche modo si ricollegano a ciò a cui sto lavorando. Questa montagna di informazioni è una sorta di grande calderone da cui poi sviluppo le immagini.
Per prima cosa disegno a grafite sui fogli (già nel formato definitivo), poi ripasso tutto a penna.
Fondamentalmente, lavoro con trame e superfici, tratteggiando, e do molta importanza alla composizione, ovvero all’equilibrio e alla dinamica di ogni immagine in funzione di ciò che racconta.
Quando ripasso a penna le illustrazioni, la prima cosa che faccio, mantenendo il bianco del foglio, è applicare il tono più scuro che ho intenzione di usare. Questo ha la funzione di definire il ventaglio di luci e ombre che utilizzerò in ogni immagine. Di recente sulla mia pagina Facebook ho postato alcune immagini in cui è possibile osservare questo procedimento.

Nelle scene finali del sogno, la donna-uccello incontra una versione gigante di sé stessa, che lavora come schiava nei campi. La protagonista la libera, e il diavolo-aguzzino che la tiene legata si vendica avvolgendola in un vortice di personaggi inquietanti e minacciosi. Nelle tavole successive, l’uccello, che non indossa più abiti da donna, si risveglia nel proprio nido. Resta però un dubbio: chi ha vinto? L’oppressore o la ribelle donna-uccello?

N: Ah… questo è difficile a dirsi… Resta a discrezione di ogni lettore…
Il sogno era dell’uccello. Potremmo dire che, svegliandosi, si libera perché esce dall’incubo.
Ma ricordiamoci che il suo incubo è in realtà composto da ciò che di terribile popola la nostra realtà e la nostra storia.
E in questo caso, noi, riusciamo a vincere contro ciò che ci opprime durante la veglia?
Forse, al contrario di ciò che accade all’uccello, a volte lo facciamo in sogno… o no?

Nicolás Arispe è nato nel 1978 a Buenos Aires e si è formato presso l’Instituto Universitario Nacional del Arte (IUNA). Insegnante, autore e illustratore di libri per ragazzi, ha lavorato per alcune riviste e fanzine e ha realizzato copertine di CD e storyboard per film d’animazione. Collabora con varie case editrici a livello internazionale e i suoi fumetti sono apparsi su diverse riviste, tra cui Suda Mery K!. Con #logosedizioni ha pubblicato La madre e la morte/La perdita e Il libro sacro.

LASCIATE OGNI PENSIERO O VOI CH’INTRATE
Nicolás Arispe
#logosedizioni
cartonato, 40 pagine, 220x220 mm
ISBN: 9788857609973