LA NOSTRA RIFLESSIONE SULLA VITA

Incontro con Sebastião e Lélia Salgado

Ascoltando le loro parole durante un incontro organizzato dalla Taschen a Colonia, mi sono emozionata fino alle lacrime, per quanto erano vere e ricche di un’esperienza che tutti dovremmo condividere, per cui qui, a seguire, la trascrizione.

Sebastião: Avverto sempre una forte emozione al momento di inquadrare, quando sono immerso nel movimento da compiere per ottenere una bella foto. Ma c’è un altro punto su cui occorre soffermarsi: le mie fotografie sono molto più di una serie di scatti riusciti, sono un modo di vivere, il nostro modo di vivere (guarda la moglie Lélia e la prende per mano). Quando arrivammo in Europa, alla fine degli anni Sessanta, io ero uno studente che preparava un Dottorato di ricerca in economia mentre Lélia studiava architettura a Parigi. Avevamo appena lasciato il nostro Paese perché era impossibile rimanerci, avevamo aderito al movimento di sinistra che lottava contro la dittatura in Brasile ed espatriammo in Francia con l’intenzione di iniziare una nuova vita. Parallelamente, studiavamo il marxismo, il materialismo dialettico, la geopolitica e l’antropologia perché in Francia c’era appena stato il Maggio del ’68 e vivevamo in un continente molto politicizzato. Eravamo parte di un movimento mondiale che si era diffuso alla fine degli anni Sessanta in Brasile, in tutta l’America Latina e in Europa. In Francia vedevamo concretizzarsi le istanze del movimento e per noi era una cosa molto importante. Terminati gli studi per il Dottorato di ricerca in economia, andai a lavorare come economista a Londra e scoprii la fotografia grazie a una fotocamera che Lélia aveva comprato per scattare foto di architettura. La fotografia invase letteralmente la mia vita, o meglio la nostra vita, e insieme decidemmo che avrei lasciato l’economia per diventare un fotografo. Per noi era un grosso rischio perché io mi ero semplicemente innamorato della fotografia ma non sapevo che razza di fotografo fossi – normale, di medie capacità oppure un vero fotografo – né avevo idea del genere di fotografie che avrei fatto. Ricordo benissimo che iniziai facendo foto di paesaggio, nudi e foto sportive finché un giorno, non so come, mi ritrovai a fare fotografia sociale. Naturalmente non c’è da stupirsi: venivamo dal continente, dal movimento politico a cui avevamo aderito in Brasile, avevamo studiato politica ed economia. Era naturale che la mia fotografia si rivolgesse a tematiche sociali. In quel periodo Lélia e io lavoravamo davvero sodo per accogliere le persone che venivano dal Brasile, dall’Argentina, dal Cile e dall’Uruguay. A quel tempo la tortura in America Latina era durissima e le persone spesso arrivavano in Francia completamente distrutte sul piano sia fisico sia psicologico. Noi lavoravamo in un grande comitato e ci davamo da fare per aiutare quelle persone trovando per loro posti in ospedale, assistenza medica e appartamenti. Avevamo una specie di furgoncino che ci eravamo procurati a Parigi con cui andavamo in cerca di belle persone che mettessero fuori sedie e vecchi mobili in modo che ci aiutassero a sistemare degli appartamenti per gli amici. Era la nostra vita. Io fotografavo e questo genere di fotografia divenne la nostra vita. Andare in quella direzione era una cosa del tutto naturale. Poi nacque il nostro secondo figlio, che è affetto dalla sindrome di Down, e Lélia dovette lasciare il suo lavoro di architetto per due anni.

Lélia: Sebastião ha parlato di quando è passato dall’economia alla fotografia. Naturalmente eravamo molto giovani e i giovani non pensano molto, si fa semplicemente ciò che ci piace, ciò che vogliamo fare e il bello dell’essere giovani è che si è pronti a cambiare, a ricominciare da zero. Di norma la nostra era una vita molto difficile ma bella: lavoravamo davvero sodo e sapevo che Sebastião aveva talento perché iniziammo a vedere un sacco di mostre e di libri di fotografia. Ero certa che lui avesse talento, perciò mi dissi: devo aiutarlo a portare avanti questa carriera. Sebastião ha parlato della nascita del nostro secondo figlio, Rodrigo, affetto dalla sindrome di Down. È stato molto difficile per noi accettare la sua malattia e capire come avremmo potuto vivere con un figlio così, ma questo ci ha fortificati. Naturalmente fui costretta a smettere di lavorare per un po’ perché lui stava male, andavamo continuamente in ospedale e Sebastião era sempre in viaggio, ma in quel periodo continuavo a lavorare con Sebastião. Lo aiutavo molto, realizzando anche le stampe delle sue fotografie. Per un anno e mezzo rimasi a casa e in quel periodo sistemai tutti i suoi archivi, fin dai primi scatti, e archiviai anche le mie foto. Fu davvero bello. Fu un’esperienza molto positiva perché in questo modo riuscii a capire veramente cosa voleva e cosa significava andare in Paesi molto difficili in tempi molto difficili. Potevo vedere tutti i provini dei suoi reportage, per me era importantissimo sapere cosa faceva. Dovevamo trovare il modo di vivere bene con una professione così difficile. Era difficile andare sempre lontano e stare via a lungo ed era dura guadagnarsi da vivere con questa professione che all’inizio comportava costi enormi: per la pellicola, le fotocamere, i viaggi. Ma era una cosa bellissima perché potevamo mettere insieme ciò che desideravamo fare: io continuai a occuparmi di architettura e in seguito mi dedicai esclusivamente alla fotografia. È stata davvero una bellissima esperienza che va avanti ancora oggi dopo 52 anni.

Sebastião: 52 anni insieme, un sacco di tempo.
Naturalmente il lavoro che abbiamo fatto, con la realizzazione di tutte queste stampe, come diceva Lélia, è stato molto difficile, molto costoso e ho dovuto lavorare con diverse agenzie in tutto il mondo. Ho lavorato con la Sygma a Parigi, con cui ho avuto una bella esperienza, poi sono stato quattro anni con Gamma e quindici con Magnum, che al tempo era la struttura più grande del mondo. Nel 1994 Lélia fondò la nostra agenzia fotografica chiamata Amazonas Images. Ma per fare queste foto dovevo trovare un modo per vivere e ovviamente non potevo fare a meno di lavorare per le agenzie e per la stampa, così ho collaborato con la rivista tedesca Stern, con Der Spiegel, con il Times, con Newsweek e con molte altre riviste in tutto il mondo. Ma mi comportavo in maniera alquanto diversa dai nostri amici che facevano fotoreportage. Con Lélia pensammo al modo di organizzare la mia vita di fotografo in una certa direzione, andando oltre il semplice fatto di coprire le notizie su incarico di qualche rivista. Iniziai a lavorare in Africa, amavo molto l’Africa, per noi brasiliani l’Africa è il continente più importante. Prendi un metallo in Africa e un metallo in Brasile: puoi fonderli facilmente, perché 150 milioni di anni fa erano parte di un unico continente. Ciò che è minerale in Africa, è minerale in Brasile... La separazione dei continenti ci ha divisi, ma abbiamo lo stesso entroterra. Tra la fine del XVI e l’inizio del XVII secolo, moltissimi schiavi arrivarono in Brasile dall’Africa e nacque quella che chiamiamo la razza brasiliana. C’è stata un’incredibile mescolanza, l’Africa ha esercitato sul Brasile un’influenza straordinaria. Cominciai ad andare in Africa, accettavo qualunque incarico mi portasse là. Così iniziammo a confrontarci sul progetto di un’opera dedicata all’Africa. Io ero un economista e a quel tempo in ogni parte del mondo si verificavano incredibili rivoluzioni, molte delle quali in Europa. L’Europa stava vedendo la fine della prima grande rivoluzione industriale. Le macchine intelligenti stavano facendo il loro ingresso nella catena produttiva: i computer, i robot... Ci aspettavamo che la classe operaia cui avevamo dedicato buona parte dei nostri studi e della nostra attività politica cominciasse a organizzarsi in un altro modo. Ma quella vecchia classe operaia aveva iniziato a scomparire. Perciò progettammo un’opera a cui avrei lavorato per sei-sette anni e che si chiama Workers. An archeology of the industrial age. Viaggiai per il pianeta per fotografare gli operai di tutto il mondo, quegli eroi tragici che andavano a lavorare per produrre prima che tutto cambiasse. Alla fine mettemmo insieme una serie di immagini che Lélia trasformò nel libro chiamato Workers e organizzammo una mostra. Una grande mostra che venne ospitata in 80 musei in tutto il mondo. Era un insieme di opere straordinario. Mentre facevo queste fotografie, iniziai a vedere emergere un nuovo concetto che in seguito avrebbe preso il nome di globalizzazione. A quel tempo non si parlava di globalizzazione e cominciammo a discutere di come sarebbe stato possibile riorganizzare la famiglia umana dato che le cose stavano cambiando in tutto il pianeta. In Brasile, quando eravamo bambini, circa il 92 per cento della popolazione viveva nei campi mentre oggi circa il 92 per cento vive nelle città. Generalmente un processo simile si compie in 560 anni mentre noi ne abbiamo impiegati 40. Viviamo in un sistema di conflitti sociali separati: la stessa cosa accade in India, in Cina, in Messico, in Indonesia. Tutti questi operai che fotografavo stavano sparendo qui ma erano nati là. Questo grande continente era un grande produttore di qualunque tipo di materiale: dalle acciaierie alle aziende produttrici di automobili o di autocarri, qui c’erano le industrie fondamentali di tutto il pianeta e io fotografavo le città che stavano creando una nuova organizzazione della famiglia umana. A quel punto iniziammo a delineare una nuova opera: Exodus. Avevamo visto che circa duecento milioni di persone all’anno abbandonavano i campi in tutto il mondo e se ne andavano nelle città creando una nuova società urbana in ogni parte del pianeta. Ideammo quest’opera e per sette anni fotografai questi posti e queste popolazioni. Terminato Workers, cominciai a fotografare luoghi e popolazioni di tutto il mondo per questo nuovo progetto. Dopo averlo ultimato, seguimmo questa situazione di conflitto nell’ex Jugoslavia, in Africa, Uganda, Burundi. Tutta questa violenza, che ero costretto a fotografare, era dovuta a questo incredibile movimento di popoli. Tutto ciò entrò prepotentemente nella mia vita, al punto da costringermi a smettere di fotografare. Mi ammalai, stavo davvero male. Avevo visto così tanta violenza, avevo visto morire così tante persone. Un giorno vidi 20.000 persone morire e ne rimasi stordito ma ne vedevo morire 20.000 oggi, 20.000 domani e ancora 20.000 il giorno dopo. E c’erano tutti questi rifugiati che venivano in Congo, in Ruanda, in Burundi... Mi ammalai. Avevo quasi finito il mio lavoro per questo progetto e tornammo in Brasile. Ero deciso a smettere di fotografare, era stato troppo duro vedere ciò che avevo visto. Inoltre i miei genitori erano diventati vecchi e avevano deciso di passare a noi la fattoria dove sono cresciuto. Vedendo la fattoria, mi dissi: ora diventeremo agricoltori. Ma ci rendemmo conto che la terra era ormai morta, voglio dire che stava per morire, era completamente distrutta da un punto di vista ecologico, compresi prati e alberi... Ma Lélia ebbe un’idea e mi disse: Sebastião, perché non ripiantiamo la foresta pluviale che un tempo occupava queste terre? Perché no? risposi e avviammo un nuovo progetto nella nostra vita che non aveva niente a che fare con la fotografia, un progetto chiamato Instituto Terra. Iniziammo a ripiantare questa foresta pluviale e finora abbiamo piantato 2,3 milioni di alberi, abbiamo ricostruito un ecosistema che era completamente distrutto trasformando questa terra in una delle foreste più favolose che si possano immaginare. Abbiamo 170 specie diverse di uccelli, e abbiamo piantato oltre 400 diverse specie di alberi, tra cui tutte le specie native. Mentre eravamo impegnati a ricostruire la foresta e a recuperare la terra, ci venne l’idea di realizzare un’altra opera, il libro Genesi. Così ideammo il concept di Genesi: era straordinario e mi fece venire un gran desiderio di tornare a fotografare. Cominciammo a progettare un nuovo corpus di immagini, per circa otto anni andammo a fotografare in giro per il mondo e il risultato è il libro che tutti conoscete. Ho detto tutto questo per farvi capire che cos’è per noi la fotografia, cosa ho fatto io come fotografo e cos’ha fatto Lélia come curatrice di libri e mostre. Non è che a un certo punto ci venisse un’idea su cui lavorare e poi ce ne venisse un’altra e ci lavorassimo per fare un bel libro o una bella mostra... no... era la nostra vita, il nostro modo di vivere. È con la nostra ideologia, la nostra etica, la nostra filosofia di vita che costruiamo la nostra fotografia.

Lélia: È la nostra riflessione sulla vita, ciò che pensiamo della vita, come vediamo la vita e come pensiamo di poter vivere in questo mondo, con tutti i problemi che ci sono e anche tutte le cose belle.

Sebastião: Abbiamo realizzato Genesi e fatto un sacco di viaggi in Amazzonia e scattato un sacco di foto. In Genesi c’è un servizio fotografico dedicato all’Amazzonia e, dopo aver finito il libro, abbiamo fotografato là per altri tre anni e probabilmente ci lavoreremo per altri tre o quattro. L’Amazzonia sta attraversando un periodo molto drammatico. In tutto il pianeta c’è un grande bisogno di umidità e io sono sicurissimo che questa venga principalmente dall’Amazzonia, dove c’è un’enorme quantità di acqua e di foresta pluviale. C’è una simile concentrazione di umidità perché tutti i fiumi che arrivano al pianeta sono in qualche modo nati in Amazzonia. Se distruggiamo la foresta, se perdiamo la foresta, le conseguenze saranno drammatiche. In Amazzonia abbiamo una popolazione incredibile, solo in Brasile coesistono circa 250–300 diversi gruppi indigeni, è una cosa straordinaria. In Amazzonia c’è una grande cultura indigena e c’è un’enorme quantità di tribù che ancora non sono mai state contattate. In Brasile abbiamo circa un centinaio di gruppi che non sono mai entrati in contatto con la società occidentale e abbiamo deciso di fare questo lavoro insieme alla mostra che Lélia ha pianificato e progettato. Stiamo provando a vedere se riusciamo a creare un movimento politico sfruttando le fotografie che abbiamo scattato in Amazzonia, dove sono tornato nell’aprile del 2016 e dove ho lavorato con una tribù. In Brasile ho avuto un incontro con cinque senatori brasiliani che conosciamo molto bene e sono nostri amici. Volevamo vedere se riuscivamo a penetrare nella giungla, e poi ad avanzare la nostra proposta di cambiamento delle politiche economiche del Brasile nei confronti dell’Amazzonia. In questo momento abbiamo una politica devastante per l’Amazzonia, una politica fortemente predatrice, e vogliamo provare a cambiarla. Un giorno, circa quattro settimane fa, siamo venuti a Berlino e abbiamo incontrato alcuni esponenti del WWF tedesco a cui abbiamo spiegato che con alcuni amici che abbiamo qui in Germania vogliamo provare ad avvicinare il governo tedesco a queste idee. Io sono diventato membro dell’Académie des Beaux-Arts in Francia circa due mesi fa e sono membro dell’Institut Français, che ha una certa influenza sul governo francese. Sono certo che possiamo portare i nostri amici insieme a noi per vedere se queste foto che abbiamo fatto in Amazzonia e che ne mostrano la cultura indigena, nonché i confini, gli animali, il fiume, possono formare un’opera che potremo utilizzare per fondare un movimento a favore di una reale protezione di questa foresta. Vedete, questa è la nostra vita e speriamo che in qualche modo diventerà anche quella di tutti. Una volta che il libro sarà uscito, Lélia ha un progetto per le mostre da tenere in Brasile.

Lélia: Con queste foto dell’Amazzonia per Exodus realizzammo una mostra di poster e facemmo delle stampe molto buone. Fu una cosa semplice perché volevamo fare una bella mostra e potevamo incorniciare i poster o appenderli direttamente alla parete. In questo modo tutti ebbero la possibilità di vedere le immagini e penso che sia stata un’ottima cosa, molto popolare. La prima era per il movimento dei senza terra in Brasile, pubblicammo un libro chiamato Terra e realizzammo la mostra. Dopo averla progettata, stampammo, non so, 2500 poster per varie esposizioni contemporanee. Il movimento dei senza terra distribuì i poster in tutto il Brasile e anche qui in Europa lavorammo con un’istituzione che portò la mostra ovunque. Fu molto bello perché nello stesso momento moltissime persone potevano vedere le immagini e discuterne. Può essere una cosa molto istruttiva, anche perché è facile trasportare i poster ed è facile appenderli alla parete. È facilissimo, stiamo pensando di fare un’altra mostra così sull’Amazzonia e nel giro di – non so – tre-quattro anni o più Sebastião scatterà le foto e ci occuperemo delle altre cose che servono per realizzare una mostra così.

Sebastião: Ho detto che la fotografia per noi è un modo di vivere, è molto più delle immagini che ci piacciono, è la nostra vita. Ho realizzato così tanti servizi fotografici. Ad esempio, per Workers stavo lavorando con l’industria del petrolio in Venezuela quando Saddam Hussein, che aveva invaso il Kuwait, diede fuoco ai pozzi di petrolio. Probabilmente la maggior parte di voi se ne ricorda, era il 1991 e fu il più grande disastro ecologico che si sia mai verificato su tutto il pianeta. Bruciarono seicento pozzi di petrolio allo stesso tempo e, per darvi un’idea, in circa dieci mesi bruciarono e dispersero in tutto più di un milione di barili di petrolio. Fu una cosa incredibile. Naturalmente andai là a scattare queste foto ma feci solo un leggero lavoro di editing con Lélia, con la quale stavo lavorando a un corpus di opere molto più importante che era Workers. Decidemmo di includere alcune di queste immagini nel libro ma non facemmo un lavoro di editing davvero rigoroso. Per tutto lo scorso anno ho insistito: Lélia, sono convinto di avere una storia qui, così ho ripreso queste foto e ci ho lavorato in maniera più approfondita. È un grande libro dal titolo Kuwait: a desert on fire. Sapete, ho avuto una grande opportunità: la possibilità di vivere la mia vita in questo momento storico e, attraverso le mie fotografie, di cavalcare l’onda della storia in questa fase che stiamo vivendo.
Non scattiamo foto semplicemente come chi lavora per la stampa e va in un posto a fare qualcosa perché lì sta succedendo qualcosa. Quando esci a fotografare, porti con te un grande e lungo retaggio, nella frazione di secondo in cui fotografo porto con me mio padre, mia madre, le luci che ho visto da bambino in Brasile nella fattoria dove oltre metà dei terreni era occupata dalla foresta pluviale. La stagione delle piogge era straordinaria e insieme a mio padre andavo nei punti più elevati di questo territorio per veder arrivare questa grande stagione con le sue luci incredibili. La frazione di secondo in cui avviene lo scatto comprende tutto questo: tutti gli studi che abbiamo fatto insieme, sociologia, antropologia, geopolitica, economia, sono tutti dentro di me. Mi posiziono, assumo il mio punto di vista etico, filosofico, sociale. Tutto questo è presente, ho scelto di esserci tutta la vita, insieme a mia moglie, con cui vivo da 52 anni. Abbiamo vissuto la nostra vita insieme ed è tutto lì, nella frazione di secondo in cui fai il tuo intervento. La fotografia non è oggettiva, è soggettiva. Se chiedi a un centinaio di fotografi di fotografare lo stesso evento, avrai un centinaio di fotografie diverse perché ciascuno ha un retaggio diverso. In questo momento tu hai il tuo retaggio, devi ancora raccontare questa storia attraverso le tue immagini e credo che questa sia una delle cose più straordinarie della fotografia. La fotografia è qualcosa di molto recente, ha poco più di 120–150 anni ed è vicina alla sua fine. Ci sono tutti questi telefonini, queste fotocamere digitali. Ormai la fotografia è diventata un concetto e non si tocca più. Pensa ai fotografi che stampano le proprie immagini, che toccano le stampe... la fotografia è quella che tuo padre e tua madre ti facevano da bambino, i rullini che portavano all’angolo della strada dove un fotografo avrebbe fatto queste piccole stampe da incollare in un album e questa diventava la tua storia, i tuoi ricordi. Tutte le fotografie portano con sé una storia enorme. La fotografia è destinata a scomparire perché se perdi il telefono o il computer perdi le tue fotografie, ma non è più importante. Ciò che conta è che la fotografia è diventata un linguaggio, tu la mandi per email e la usi per comunicare. Probabilmente oggi la fotografia ha a che fare con tutto questo, ed è questa l’opportunità che abbiamo come fotografi. Ma è incredibile ciò che noi abbiamo vissuto. Come ho detto poco fa, ho avuto l’opportunità di vivere la mia vita e il mio momento storico attraverso queste foto che raccontano una storia con tutto ciò che conservano. La fotografia è talmente potente, talmente incredibile, che nel giro di 20–40 anni a partire da adesso queste foto che abbiamo fatto come documentazione, come modo di vivere, assumeranno un valore enorme perché riguardano qualcosa che sta svanendo, riguardano il mondo in cui viviamo, ecco cos’è per me la fotografia.
Mentre stavo fotografando per Workers, ogni volta che arrivava un gruppo di rifugiati avevo sempre un sacco di bambini intorno. Era impossibile fotografare perché loro saltavano di qua e di là e volevano essere fotografati. Anche se sono affamati, anche se stanno soffrendo, sono bambini e sono sempre elettrizzati quando c’è una nuova persona che viene a portare nuove cose nella loro vita. Certe volte era difficilissimo fotografare. Un giorno, in Mozambico, avevo 50 bambini intorno, così dissi: Ragazzi, se faccio un ritratto a ciascuno di voi, poi mi permetterete di lavorare? Risposero di sì. Immaginate 50 bambini e io seduto là e… non so… un pezzo di legno là e un albero là e un bambino che viene da me e io scatto una foto... Venivano da me uno alla volta e io usai un obiettivo Leica da 60 mm. All’epoca lavoravo con una Leica, e quell’obiettivo era perfetto per i ritratti, così feci un ritratto a ciascuno di loro. Dovevo scattare per davvero, se lo fai per finta i bambini se ne accorgono! Così li fotografai. Erano felicissimi, mantennero la promessa e se ne andarono e io mi misi a lavorare. Due ore dopo arrivò un altro gruppo e scattai altre foto, e così via. Al viaggio successivo, mi sedetti di nuovo per fotografare e successe la stessa cosa. Ma avevo trovato la soluzione, quindi feci ai ragazzi la stessa proposta e loro accettarono, e così via. Arrivato a Parigi, sistemai queste foto e le lasciai da parte per lavorare al libro Workers senza pubblicarle. Finché un giorno iniziai a guardarle e mi resi conto che i bambini di fronte a me non si preoccupavano del gruppo. C’era una vera relazione tra il fotografo e la persona ritratta in quel momento: attraverso i loro occhi potevo leggere dentro la loro anima e vedere la loro vita. Iniziammo a vedere quegli scatti in una nuova prospettiva, così Lélia prese una decisione e disse: Sebastião, dobbiamo trovare un posto per questi bambini. Lélia ebbe l’idea di fare questo libro e di dedicarlo ai bambini, così creò un libro con questi ritratti, che inizialmente si chiamava Portraits of children from the Exodus. Questo era il titolo originario del libro.

Lélia: Facemmo una mostra dedicata a Exodus, a Roma. Naturalmente ogni luogo è diverso e bisogna adattarsi. La mostra comprendeva 350 foto e 90 ritratti di bambini. Io non volevo una stanza molto grande e li esposi separatamente, in poco spazio, ma faceva un effetto potentissimo entrare nella stanza e vedere tutte queste paia di occhi che ti guardavano. Era davvero qualcosa di molto forte. Questi bambini ci aiutarono moltissimo a sviluppare il soggetto perché se ne stavano lì senza sapere realmente cosa stesse accadendo. Ma erano bambini e si divertivano, come se fossero a scuola, ed è una cosa molto importante.

Sebastião: Da quando ho realizzato Exodus, le persone a volte mi dicono che sono il fotografo della miseria del mondo, ma non è così. Tutti coloro che ho fotografato per questo libro non vivevano nella miseria. Queste persone conducevano una vita normale, avevano un equilibrio nella loro vita, avevano una casa, davano da mangiare ai loro figli. I mariti e le mogli si amavano e amavano i bambini finché un giorno, senza sapere perché, erano stati cacciati dalla loro casa, dalla regione in cui vivevano. Erano stati gettati in mezzo alla strada e avevano perso tutto. Ma queste persone non erano disperate, facevano una vita molto difficile, dovevano affrontare un sacco di malattie ma stavano vivendo un momento di transizione da un punto di equilibrio a un altro punto di equilibrio di cui erano alla ricerca, vivevano in comunità. A colpirmi di più in questo gruppo di persone erano gli anziani. Le persone molto anziane che avevano lavorato tutta la vita, che si erano preparate a finire i loro giorni in pace si ritrovavano per strada. Per loro era molto diverso. Anche per i bambini era diverso perché non avevano idea di cosa stessero perdendo quando venivano gettati in strada. Exodus e Children rappresentano probabilmente l’esperienza più forte che abbia mai fatto in tutta la mia vita.
Sedici anni fa queste cose accadevano in Asia, America Latina e Africa, invece oggi accadono anche in Europa, a casa nostra. Ma la situazione è esattamente la stessa di un tempo. L’unica novità è che la stiamo vivendo qui, in Europa.

Bibliografia
Kuwait. A desert on fire, Taschen 2016
Children. I bambini di Exodus, Taschen 2016
Genesi, Taschen 2013
Africa, Taschen 2007

Filmografia
Il sale della terra, regia di Wim Wenders e Juliano Ribeiro Salgado, Rai Cinema 2015 (DVD e Blu-ray)