Alcuni miliardi di anni fa, un gigante sporco e sciatto
si scrollò via un po’ di unto dalla mano.
Una di quelle gocce di grasso è il nostro universo,
che sta cadendo verso il pavimento. Splat!
William S. Burroughs, La febbre del ragno rosso, Adelphi, 1996
Il valore dell’Ipotesi Gaia, elaborata negli anni ’70 del secolo scorso da James Lovelock e aspramente criticata per il suo sospetto vitalismo, risiede più nel dibattito che ha generato che non nella sua effettiva validità. Se oggi gli scienziati ritengono la presenza della vita al di fuori del nostro pianeta non più un’eventualità remota ma una possibilità statisticamente rilevante, questo cambiamento di prospettiva si deve in parte anche all’idea che la vita sia in grado di organizzarsi in un equilibrio tutto sommato stabile.
L’Ipotesi Gaia partiva da alcune osservazioni. Il sole, ad esempio, si è fatto sempre più caldo negli ultimi tre o quattro miliardi di anni, eppure la vita non è finita. Forse, ragionava Lovelock, gli organismi non si sono limitati ad adattarsi a questo surriscaldamento ma l’hanno combattuto attivamente, raffreddando il pianeta intero. La vita, che si basa sul carbonio, ha risucchiato via l’anidride carbonica dall’atmosfera, diminuendo l’effetto serra e controbilanciando così l’aumentato calore del sole.
Un sistema perfetto, a cui Lovelock diede il nome della divinità greca che indicava la Madre Terra, l’origine della vita di tutte le creature. L’ottimismo che lo pervadeva e il nome accattivante hanno fatto il resto, sancendone la fortuna nella cultura popolare.
Ma prima o poi arriva sempre il guastafeste di turno.
Peter Ward, paleontologo dell’Università di Washington, Seattle, ha proposto nel 2010 una contro-ipotesi in tutto e per tutto antitetica all’Ipotesi Gaia, a partire dal nome: Ipotesi Medea.
E, se vi ricordate cosa fece Medea alla sua prole, capirete perché sia decisamente meno piacevole scoprirsi figli suoi, anziché della Madre Terra.
L’Ipotesi Medea dice sostanzialmente che la vita su questo pianeta tenderebbe all’autodistruzione. Gli esseri viventi, sostiene Ward, sulla lunga distanza provocheranno da sé la propria scomparsa, e non sarà l’uomo il problema.
È già successo in passato: l’avvelenamento da metano (avvenuto 3,5 miliardi di anni fa), la catastrofe dell’ossigeno (2,7 miliardi di anni fa), il cataclisma della “Terra a palla di neve” (2,3 miliardi di anni fa, e poi di nuovo 700 milioni di anni fa) e altre estinzioni di massa come quella del Permiano-Triassico.
Praticamente ogni volta che la vita è stata a un passo dallo spegnersi definitivamente – se si eccettua il meteorite che causò la scomparsa dei dinosauri – la responsabilità è stata della vita stessa, cioè dei microbi anaerobici.
Tali microbi abitano le zone oceaniche a basso contenuto di ossigeno ma nel momento in cui il clima si surriscalda cominciano a proliferare rilasciando acido solforico, un gas capace di uccidere ogni altra forma di vita. Prima o poi, avverte Ward, i ciclici “tentativi di suicidio” della biosfera avranno successo, mettendo la parola fine alla vita, questo strano esperimento destinato a fallire fin dall’inizio. E in termini di semplice peso della biomassa (il peso dell’insieme delle creature viventi) la Terra ha già iniziato la sua discesa lungo la parabola – d’ora in poi la presenza della vita si ridurrà sempre di più, inesorabilmente.
A meno che.
A meno che l’uomo non faccia qualcosa. Sì perché, per quanto pessimistica possa sembrare l’Ipotesi Medea, le sue previsioni riguardano un futuro assai remoto (l’appuntamento con l’estinzione globale è fissato fra 500 milioni di anni). Inoltre Ward suggerisce che essere coscienti dello stato delle cose ci permetterebbe di pianificare delle contromisure, nello specifico per mantenere il giusto equilibrio di anidride carbonica: né troppa, né troppo poca.
In sostanza, il messaggio di Ward è che Medea si potrebbe trasformare in Gaia, se solo ci mettessimo d’impegno.