Editoriale

di Francesca Del Moro

Incoraggiati a scrivere la loro “lettera d’amore al pianeta”, i poeti qui selezionati hanno individuato nella geografia della Terra molteplici significati, contrapposizioni, interrogativi. Nei suoi versi ricercati e dall’andamento epico, imperniati su una sequenza di ipotesi in anafora, Anna Maria Ferramosca esplora paesaggi primigeni e interventi artificiali, interrogando la Terra sui suoi aspetti misurabili e sui misteri imponderabili della vita. Ed è proprio un elemento imponderabile, l’essenza del nostro essere umani, a lasciare un segno negli scenari inafferrabili ed evanescenti che si avvicendano nei versi di Cristina Bove. Un’altra contrapposizione è al cuore del breve e incisivo componimento di Claudia Zironi: l’imperturbabile immobilità delle pietre contrapposta al fibrillare ovunque della vita, la loro innocenza nell’inazione che con un azzardo semantico viene assimilata a un gioco. I versi di Valentina Premerl indagano i rapporti tra la Terra personificata, ritratta con perizia e amore, e gli esseri umani figli suoi, in un susseguirsi di immagini efficaci fino a una chiusa ricca di speranza. Altrettanto pittorica e suggestiva è la poesia di Pina Piccolo, un invito ad addentrarsi nelle meraviglie del pianeta, che serbano la sua e la nostra storia, il nostro senso. 

Abituarsi a non lasciare ombra

di Cristina Bove

-Vedi pareti?  Chiede nel dormiveglia
il capomastro delle case a picco
-Vedi la roccia conservare impronte?
è una terra che scorre come sabbia
un mondo errante
nessuno evade ma nessuno resta

nevica sale ovunque e spazza via
le regge e i bassifondi
le maniere gentili e gli abomini
_passa ogni cosa_
fossero scie di stelle o incisioni rupestri
la storia è un’illusione degli umani

però l’inafferrabile
che lo si viva di progetti o sogni
non ha necessità di registrarsi
che lo si scriva o no
che lo si dica o taccia
il pensiero è una traccia d’universo

Silenziosa
mai davvero,
gravida di pietà
-in ginocchio arcuata
i veli stesi a valle-
a noi protesa
china in umida umiltà

in alto volge lo sguardo
in tenera attesa di me
di te riflessi nelle stelle
-astronauti siamo
nel tempo perduti
del sonno-

madre nostra terra
inseminata dal sogno
-nel suo abbraccio
stormisce le fronde
gemendo nel parto
sussurra nei boschi
la verità-

nel ventre le doglie
-di detriti è ricolma
l’umana gola
ormai asciutta-
contrae
amniotica culla
la spinta
verso un risveglio.

Canto di una conferma

di Annamaria Ferramosca

                                              Se fosse
pura coincidenza di parametri
                                              a tendere
l’arco innocente della vicenda
Solo un’aria giovane
profumo d’alga iniziale
turbolenza di fango
confuso ancora
tra humus di stelle e tufo di conchiglie

                                              Se fosse
solo biotopos in giusta insolazione
                                               a confermare
la dignità dei vivi
inconsapevoli onde in sinuosa evoluzione

                                              Se fosse
amore solo un’eco parallela
armonia di due eliche abbracciate
                                              a punteggiare
di luci-amplesso il mare
diffusa spuma di desiderio
su questo territorio selvatico di antenne
ubiqua voce:
 - Ti ho vista, tu mi hai visto
il tuo ventre si inarca
e mi conosco padre
in questo coraggio largo dispiegato in vela
Mio figlio
sicuro deve adagiarsi
al rito lento della discendenza -

                                              Se fosse
essere padre
solo orgoglio automatico di geni
- io pronto al mio scarno imprinting -
io, comunque, a insegnargli
l’estrema dignità delle parole

                                              Se fosse
solo squilibrio di parametri
insolente penuria d’acqua o di petrolio
                                              a offuscare
un ragionevole confine
                         
                                              a mescolare
nuovi profili in nuove dimensioni
il dialogo offerto del tuo viso ibridato

                                              Se fosse
questo vivere imperfetto
puro accidente
anche il tuo stupore
                                              a confermare
la dignità del cerchio accerchiato
Terra
ruota innocente
lungo i nostri sofferti meridiani
madre che mesce vino ingoia sangue
sussulta violata eviscerata
Terra
assopita al canto di nenie circolari
Si leva salda, al sole
perfettamente orientale
                                              a confermare
che attende ogni alba
                                              la sua grande nave

da PORTE/DOORS, Edizioni Del Leone, Venezia, 2002

Mentre la vita

di Claudia Zironi

mentre la vita infestava il pianeta
nelle loro tane
innocenti
le piccole pietre giocavano
a star ferme.

Sogno primordiale

di Pina Piccolo

Di un verde vivido
Che srotola la preziosa essenza
Alla luce filtrata

Teneri svelamenti
Sotto la coperta della notte
Quando il bosco giace
Inondato della luce
Di un miliardo
Di stelle spente
La loro polvere sospesa
Fra le ragnatele
Del tempo

Esamina lo strato
In cui nessun
Tesoro
Si cela
Se non falene
Annidate
Nei punti ciechi
Della memoria

Nella tana
Dove il tuo io più giovane
Si nasconde ozioso
Divertendosi a confondere
La tua prossima mossa

Non lasciarti
Ingannare
Dalla calma apparente
Sotto,
Un silenzioso turbinio
Di vortici
Si sta perforando il tunnel
Verso la realtà

Fuori dal tempo del sogno
Teso tra
I rami
Dell’albero genealogico
Sfrecciando tra le nebbie
Dell’incertezza

L’inscandagliabile DNA
Rilevato nella saliva
Della deriva
Dei continenti
Con i ponti
Sbrindellati
Sotto l’assalto
Delle onde

Eppure nel profondo del bosco
Distesa se ne sta la felce oziosa
Offrendosi ai riflettori
Sull’altare
Della vista

In tagli ripidi

di Alessandro Brusa

In questo nuovo libro, uscito a circa quattro anni dal primo volume di poesia, La raccolta del sale, Alessandro Brusa porta avanti il suo percorso di ricerca attraverso la parola, indagando la propria esistenza in quanto essere umano in senso universale e la molteplicità delle relazioni, degli equilibri e dei conflitti che la caratterizzano. Un percorso di ricerca che è insieme fisico, perché imperniato sul corpo, e metafisico, ossia volto a trascendere l’esperienza concreta, individuale, spogliandola di tutti gli accidenti per arrivare all’essenza. Questo percorso avviene nel quadro di una geografia stilizzata (resa attraverso termini ricorrenti come terra, acqua, mare, vento, tempo, spazio), esteriore e interiore, essenziale come l’io-corpo che si trova in bilico (ovvero, in punta, come si dice nel sottotitolo e si ripete all’interno del libro) tra il desiderio di fissare una forma, un’identità e la costante sollecitazione alla dispersione. Il corpo è chiamato in causa nei suoi dettagli anatomici non caratterizzati e carichi, come quelli geografici, di valenze simboliche (spalle, capo, lingua, petto, mani, naso ecc.). A condurre questa esplorazione è la Musa, o Nemesi come la definisce Marco Simonelli nella postfazione, ovvero “l’emozione grezza”, fulcro salvifico e incomprensibile, essenza che per esprimersi ha bisogno di un linguaggio diverso da quello comune. A questa lingua nuova Alessandro perviene attraverso un’opera di sottrazione, esplicitata in una poesia e già suggerita nel titolo del libro dall’espressione “in tagli”, che, letta tenendo separate le due parole oppure unendole, si riferisce in ogni caso al concetto di rimozione. Questa lingua densa ed estremamente curata nei suoi aspetti sonori (mediante allitterazioni, assonanze, rime interne anche equivoche), procede spesso per salti logici, rivoluziona l’uso della punteggiatura e persegue un bilanciamento di pieni e vuoti che mira a isolare e a dare peso a ciascuna parola invitando il lettore a sostare. La parola poetica risiede nelle ossa, struttura il corpo, è solida come una montagna ma frana dolcemente. Vive della stessa tensione tra il desiderio di definizione, la volontà di trattenere ciò che si dilegua, e la tendenza alla disgregazione che preme sull’essere umano. Alla parola che sfugge l’autore ha voluto imprimere un ordine suddividendo la raccolta in cinque sezioni che tuttavia fluiscono l’una nell’altra sfidando i confini, anche grazie alla ricorsività che dona omogeneità al libro, anzi ai libri di Alessandro. Nelle varie sezioni si possono tuttavia individuare dei nuclei tematici, che coincidono con le relazioni stabilite dall’io-corpo in termini di tempo e spazio, ma anche di amore, dono, rispecchiamento nell’altro. All’io dominante e al tu della prima sezione si unisce, nella seconda, un “noi” che evoca il concetto di condivisione, anche di matrice generazionale, senza trascurare gli incontri “di amore inespresso” con i volti dello schermo. Una cesura è segnata dalla sezione centrale dedicata alla musica, arte fisica e metafisica per eccellenza, cui seguono le ultime due sezioni, nelle quali “l’altro”, prima inteso in senso universale, si arricchisce di dettagli più concreti e colti con sguardo sensibile e amoroso, in riferimento a due persone precise: il padre e l’uomo amato. Un libro raffinato e maturo, l’approdo di un percorso consapevole che, come avverte l’autore stesso nella sua nota, è giunto alla conclusione e ci porta ad attendere con interesse la nuova direzione.

In tagli ripidi (nel corpo che abitiamo in punta)
Alessandro Brusa
Giulio Perrone editore, 2017