Sono nato in una tipica famiglia cilena e cattolica e sono cresciuto circondato da due cose: le riviste di El Peneca, un settimanale illustrato per bambini che fu pubblicato in Cile dal 1908 al 1960, e l’iconografia cristiana. In casa avevamo santi ovunque, che all’occorrenza venivano usati per controllarmi, come il Cristo della Veronica, un’immagine orribile di Gesù sofferente e insanguinato, che mi veniva mostrata ogni volta che mi comportavo male e mi paralizzava. Fu così che compresi l’importanza delle immagini e come usarle… Trascorrevo molto tempo con mio nonno, che era stato istruttore di fanteria in marina, e a cui non piaceva che i bambini perdessero tempo, voleva che tutti facessero qualcosa, sempre. Mio fratello, che non era buono a fare niente, lo faceva marciare, io invece dovevo disegnare. Trascorrevamo così tutti i pomeriggi dei nostri fine settimana: mio fratello marciava, io disegnavo. Facevo molti ritratti a mio nonno, e questo a lui piaceva. Non potevo rifiutare di disegnare, perché mio nonno era stato istruttore di fanteria in marina, e avevamo un rapporto molto tenero ma anche molto da uomini. Lo amavo molto. Aveva una vecchia casa di porto, e pollai e anche trappole per topi dappertutto, e quando arrivavano i passerotti mio nonno li prendeva e schiacciava loro la testa perché non voleva che si mangiassero il cibo delle galline. Mio nonno era stato un militare della marina, aveva ucciso delle persone, era stato torturato, aveva avuto una vita molto dura. Era il padre di mia madre, lo chiamavo Pancho. Mi mandava in spiaggia a raccogliere conchiglie che tritava per mescolarle con il mais dei polli così da irrobustire i gusci delle uova, e quando gli facevano male i piedi e gli si gonfiavano, io andavo a prendere lunghi fili di luche, un’alga, in cui glieli avvolgevo per sgonfiarglieli. Ci amavamo, profondamente, e quando morì fu come se fosse morto mio padre. Lui aveva 86 anni, io circa 16. Poi morì mia madre, in quel periodo ero in Messico, e provai un dolore profondo. Non caddi e non piansi, ma il dolore non è mai andato via. Fino a quel momento il dolore era una grande sofferenza che poi però passava, invece il dolore per la morte di mia madre rimase con me e iniziai a conviverci.
Ho sempre avuto degli amici, buoni amici, ma ho comunque continuato a disegnare, era una pratica quotidiana che mi dava piacere. All’università studiai pedagogia dell’arte, volevo fare l’insegnante, e mi specializzai in incisione. Iniziai anche a fare libri, ho sempre amato fare incisione trattandola come fosse la pagina di un libro, per me l’incisione è parte di un libro, non mi piace come opera autonoma, mi ha sempre dato la sensazione di essere una struttura frammentata che ha bisogno di una sequenza per essere completa.
Me ne andai in Messico a studiare e mi ritrovai senza soldi, così presi i miei lavori e mi presentai alle case editrici, ricevetti molti rifiuti, finché bussai alla porta di Fondo de Cultura Económica e iniziai a lavorare.* Rientrato in Cile con il mio libro di Fondo de Cultura ricevetti ancora altri rifiuti, ma incontrai Paulo Slachevsky di LOM ediciones e iniziammo a fare dei libri. Anche con i miei amici faccio libri, tra di noi. Mi piace disegnare! Mi piacciono le storie! Mi piace fare libri! Il disegno e il testo per noi (occidentali) sono due mondi diversi, ma è un fenomeno culturale che ha un’origine, non è come un’entelechia aristotelica. In un punto della storia il disegno e il testo erano la stessa cosa e con il tempo si sono divisi, ma il testo è immagine. Noi abbiamo una cultura logocentrica che rende le immagini meno importanti, meno veritiere di un testo. La “storia” tra l’immagine e il testo è un delirio, perché sono la stessa cosa, io considero sempre il disegno come fosse un testo, come fosse una narrazione, come qualcosa da dire, per questo, per me, se un disegno non ha contenuto è solo ornamento. Anche l’ornamento ha un significato, tutto ha un significato, ma a un livello diverso. Il testo è immagine, la tipografia è immagine astratta. Il testo si riempie di significato, l’immagine invece si apre al significato e non ne possiede alcuno.
Quando mi mostravano immagini della Bibbia mi piacevano, mi suscitavano emozioni, solo successivamente iniziai a capire che erano solo immagini e mi resi conto del potere che avevano. Il linguaggio è un’arma potente: a noi, i più innocenti, hanno dato il linguaggio e siamo diventati i più pericolosi perché deliriamo e trasformiamo il nostro delirio. Per questo mi interessa l’immagine come narrazione, perché è potere per costruire realtà. Noi abitiamo il linguaggio, senza linguaggio non saremmo nulla, saremmo immanenza, ma con il linguaggio usciamo dall’erba, dall’acqua e disegniamo case che poi trasformiamo in case, divinità che trasformiamo in Dei. Tutto ciò che abitiamo in fondo è stato immaginato da qualcuno, poi disegnato e poi costruito, ma comunque sempre prima immaginato, allora ai bambini dico sempre che il disegno è una forma di realtà ma con un diverso status, non è la realtà completa, ma nella nostra mente che abita il linguaggio è in ogni caso una realtà. La Vergine Maria è uno status di realtà per chi crede in lei, e lo è anche Babbo Natale. C’è gente che vive in uno mondo immaginario, perché il linguaggio è un delirio.
Delirio significa credere che le cose che non sono SONO. Credere nella democrazia è un delirio. Ai miei studenti di illustrazione mostro sempre diverse tematiche, ad esempio illustrazione e propaganda, il delirio della propaganda nazionalsocialista e i suoi elementi, faccio con loro un’analisi iconografica così estrapolano e imparano a leggere. Oppure insegno loro il disegno come utopia, a me piace molto cercare disegnatori che siano stati anche architetti, così ho trovato un francese del 1700, Étienne-Louis Boullée, quello che fece il Cenotafio di Newton, che aveva lo scopo di suscitare nell’osservatore sensazioni cosmiche davanti a uno spazio che doveva riprodurre l’immensità dell’universo. Io dico ai miei studenti che le utopie non vivono nella realtà, vivono nel suo riflesso, nel suo disegno, e quindi essere un disegnatore significa essere utopista. I sovietici costruirono città utopiche, non le hanno mai vissute in realtà, le hanno costruite sulla carta, nel fotomontaggio. Leggo sempre ai miei studenti un frammento del Rigore della scienza di Jorge Luis Borges: “… In quell’Impero, l’Arte della Cartografia giunse a una tal Perfezione che la Mappa di una sola Provincia occupava tutta una Città, e la Mappa dell’Impero tutta una Provincia. Col tempo, queste Mappe smisurate non bastarono più. I Collegi dei Cartografi fecero una Mappa dell’Impero che aveva l’Immensità dell’Impero e coincideva perfettamente con esso. Ma le Generazioni Seguenti, meno portate allo Studio della cartografia, pensarono che questa Mappa enorme era inutile e non senza Empietà la abbandonarono alle Inclemenze del Sole e degli Inverni. Nei Deserti dell’Ovest sopravvivono lacerate Rovine della Mappa, abitate da Animali e Mendichi; in tutto il Paese non c’è altra Reliquia delle Discipline Geografiche.” Un delirio, ma che esiste anche se non è di mattoni, perché esiste nell’immaginario, nello spirito delle persone. Cerco di insegnare ai miei studenti che la realtà non è solo una cosa che si tocca, e che di fatto noi abitiamo una realtà nella nostra cultura e nella nostra fede.
Claudio Romo insegna all’Università di Concepción in Cile e con #logosedizioni ha pubblicato VIAGGIO NEL FANTASMAGORICO GIARDINO DI APPARITIO ALBINUS (aprile 2016)
Questa conversazione con lui è stata registrata tra un boccone e l’altro in una trattoria di Bologna il 2 aprile 2016.
*El cuento de los contadores de cuentos,
Nacer Khemir/Claudio Romo
Fondo de Cultura Económica, 2004