Invitati a ricondurre i propri versi al genere noto in pittura e fotografia come “natura morta”, Alessandro Silva e Giusi Montali hanno scelto di cogliere un momento di “morte della natura” realizzando immagini molto dinamiche, e in quanto tali vicine piuttosto al cinema. Nel suo componimento come sempre caratterizzato da una raffinata musicalità e da un linguaggio finemente cesellato, Alessandro Silva sublima il gesto banale di spargere l’erbicida nella morte quieta e al tempo stesso intrisa di pathos che interessa piante, insetti e perfino lo sguardo delle stelle. Una drammaticità che nel sonetto sui generis di Giusi Montali spalanca una scena apocalittica in cui il ritmo incalzante e gli inserti di terminologia scientifica e specialistica proiettano lo spezzone di un film di fantascienza che critica duramente l’aggressione umana alla natura. Più classica è la “natura morta” di Patrizia Sardisco, vera e propria ode alla conchiglia, quasi un inno sacro imperniato su una fitta trama di rispondenze sonore in cui le dominanti allitterazioni in “c” e la melodia spiraliforme trasformano l’intero componimento in una lunga onomatopea. Batte una nota delicata, invece, la breve e limpida poesia di Giovanna Di Giacomo, che posa uno sguardo consapevole e rassegnato sul petalo appassito tra le pagine di un libro, specchio di una giovinezza che ormai è possibile serbare solo nel ricordo.
Venti gocce di erbicida.
Disciolte gocce amare
non faranno rumore
cogliendo i fili d’erba
tra una pace di vetro
e l’inquieto torpore.
Nel fruscio del cielo un
tardivo occhio di stella
soffre di luce crollata
sul freddo di cenere vegetale.
Nessuna rugiada che cola
sulla macchia arresa di terra.
Solo nude pietà di insetti
in bozzoli cristallizzati
(quieti diamanti, opachi).
Come un fiore di pesco chiuso in un libro
che non sa trattenere la primavera
tu resti chiusa lì
ad appassire in silenzio
senza nessun battito o sospiro che possa salvarti
tra pareti che non sanno trattenere
la tua giovinezza.
II.
l'omotetia che distrugge le grandezze racchiude ramo, radice
e albero nella stessa geometria, mentre il cloro stinge le dita
all'alba e il frutteto candeggia, si cauterizzano le escrescenze
si diffonde la foschia, i funghi sterminano il campo: arriva il
benomyl, il fertilizzante, la morfolina che lucida le mele, ora
i coleotteri precipitano, così le ninfee nello stagno, l'acqua si
colora di giallo, poi tutto è inghiottito dai palazzi e di fianco
all'autostrada c'è l'elettronarcosi, la giugulare recisa, le setole
tolte con lo strato corneo, l'immersione, l'asportazione, poi il
flambaggio e la docciatura, e dopo cosa rimane? le viscere
ancora per poco, il corpo tagliato da parte a parte che giunge
tra gli scaffali nella città che è un'unica insegna, la gente che
scorre ancorata ai carrelli, ma poi la terra ingoia tutto: i negozi
le luci, gli spettri e si richiude in baratro
compassata conchiglia
spira a misura rampa logaritmica
occhio di Dio su maglia a mano umana
pesce fuor d’acqua curva a cumulare
cava sedimentaria idea di mare
coclea calcarea chiara
orbita incurvata in vece d’onda
sponda mondata
sonda incuneata spirale memoriale
d’altra stagione e d’alterato piano americano
esterno giorno un’era intera
qui e ora
fruga occhio orecchio fuga di frastuono
scandaglio al suono buono
del profondo
fino in fondo natura calcio nicchio nido culla
ed eco di primordi,
cumulo elementare d’uova e tempo
orologio petroso
precipitato
in soggiorno.
Se ne stanno dure le cose e ossute
preoccupate di seguire il palinsesto quotidiano.
Quella di Leila Falà è una scrittura limpida, attenta alle piccole cose, intrisa di ironia e autoironia, di una scanzonata leggerezza che a volte muta in umorismo graffiante, ma mai in aperto sarcasmo. A questi elementi distintivi si unisce in Mobili e altre minuzie una dolcezza paziente e malinconica. È il “cantabile ironico, la parola obliqua” come osserva acutamente Sergio Rotino, che in questi versi aiutaa sopportare una condizione di malessere. Il disagio deriva da una stabilità pronta a dissolversi, un equilibrio (parola che dà il titolo a una poesia) che a volte sembra sul punto di spezzarsi, a volte si presenta già infranto ma forse destinato a ricomporsi nel dipanarsi di una trama fluida ma ricca di molteplici diramazioni e con un finale aperto. Specchio di questa condizione sono i mobili e altri oggetti del quotidiano, la cui inerzia rassicurante inizia a vacillare fin dal primo componimento, incentrato su un trasloco.Gli scaffali, il tappeto, il divano, l’abat-jour, il freezer, la lavatrice e altri oggettisono protagonisti dei ventidue componimenti, ora rivestendo lafunzione di correlativo oggettivo ora acquisendo una valenza metaforica. Tra questi, la finestra assume un ruolo chiavecome cesura tra le poesie in interni e in esternied eventuale via d’uscita. La lusinga di tende svolazzanti suggerisce la possibilità di un salto, che non ha accenti drammatici ma è il volo divertente e innocuo del personaggio di un cartoon, comepotrebbe essere Will E. Coyote. A scivolare come una delicata silhouette su tutti gli oggetti è l’amore, che delineauna storia a due nel momento in cui vacilla facendo vacillare a loro voltacose e persone. È questa una precarietà che interessa al tempo stesso il livello fisicoed esistenziale: ci si sente tessera di un puzzle scombinato, panno steso ad asciugare che con pazienza subisce la pioggia ed è pronto ad accogliere il sole in arrivo o il vento che lo porterà altrove, viaggiatore che non sa se a partire è il suo treno o quello a fianco. A questo temasi contrappone la solidità strutturale dell’opera, sapientemente costruita mediante parole-chiave, leitmotiv, poesie speculari per forma e/o per contenuti. L’immediatezza di questi versi è frutto di un attentissimo lavoro di cesello sulla lingua, che persegue la musicalità attraverso una fitta tessitura di rime, anche interne, assonanze e allitterazioni.Una prima pubblicazionegiunta finalmente ad avvalorare il già lungo percorso di un’autriceche brilla per la sua voce interessante e originale.