Editoriale Poemata

a cura di Francesca Del Moro

Nelle poesie qui presentate, le mille bolle blu si innalzano come un sipario a schiudere scene d’estate perse nel ricordo ma spesso assumono una valenza metaforica universale. Nei ricercati versi “di formazione” di Alba Gnazi, in cui la ricchezza e precisione delle immagini ci riporta a episodi familiari rivissuti con dolore e tenerezza, risuona lo stesso canto delle cicale che nel suo breve componimento Elena Latini cerca come un appiglio, mentre il suo sguardo vaga smarrito e affascinato tra le grandezze del cielo e del mare. Il mare che è il fulcro della fitta trama metaforica con cui Rita Stanzione evoca l’amore, a partire da un titolo che ricorda il verso di un brano dei Camillas, Gli arpeggi. Fanno pensare invece al Rino Gaetano di Aida e Mio fratello è figlio unico i versi di Samuele Larocchia, in cui l’acqua offre un riparo per stornare lo sguardo da insopportabili realtà, mentre con il coraggio della semplicità il proprio fratello e alter ego alza la testa. Nella filastrocca di Veronica Liga, infine, le bolle blu sono gli schizzi delle onde, metafora del fluire della vita, momenti rapidi da cui lasciarsi attraversare, godendoli e lasciandoli andare, senza fermarsi ad aspettare. 

Il mare che mi sei

di Rita Stanzione

I tuoi occhi grigi
prima della notte
Un mare lunghissimo
di parole sconosciute
mi pronuncia
risacca
nome mutevole:
trema fra i capelli

Voce di sale. Ritmo
accaduto e in accadere
in un’anca appena,
una virata - come
se non fosse vero
Sei cenno ventoso
ala e cima, alla gola nuda
Sei come piango in fondo al riso
come gonfiare vele

Senso di mare, sei, più forte
che non finisce
e già manca

Scenderò a guardare il cielo

di Elena Latini

Scenderò a guardare il cielo
che sta sopra la collina.

Dove sono le cicale?

E il mare di ieri,
il grande mare...

Potrei dirti

di Alba Gnazi

Potrei dirti
guaine d’estate che
incastonano cicale nel ricordo - rammento
piccolezze assurde e tinte vocali che
più non risuonano. In che punto
di agosto la pioggia
non sa più aspettare?

Mio padre schiumava azzurri dalle
tempeste intonate da mia madre - ha le mani
squarciate dal tempo, mio padre,
dal tempo e dal troppo amore - rammento me
seduta, in ascolto, zitta:
le cicale in gola
zitte, anche loro,
fino al silenzio finale.

1987: il vecchio non si concesse
un’altra estate; mio padre tolse i teli dal giardino,
mia madre singhiozzò
sul mio primo divenire, io
tradussi tutto in partiture di
adolescenza e continuai
a camminare.

La testa sott’acqua

di Samuele Larocchia

Alcuni portavano bandiere,
altri aquiloni,
non riuscivo a sopportare
che sfruttassero il vento
e misi la testa sotto terra.

Alcuni scavavano soldi,
altri rifugi,
non riuscivo a sopportare
il rumore delle pale
e misi la testa sott’acqua.

Fu allora
che il mio unico fratello
(minore, amato, innocente)
non riuscì a trattenerla.

ONDE

di Veronica Liga

Le onde vengono e vanno,
lasciale fluire…

Un’onda fredda ti schiaffeggia –
lasciala passare
e non seguirla con l’occhio…

Un’onda calda ti accarezza –
baciala al volo
e non ti ci aggrappare…

Lasciale fluire…
Lasciale fluire…

E non stare ad aspettarle
nei navigli asciutti.

LETTERE DAL MONDO OFFESO

“Se ti capita parla dei miei libri. Spedisco tutti i miei inediti alla Feltrinelli, lunedì mattina vado all’ospedale. […] Nei miei versi è la mia resurrezione.” Sono queste le ultime parole che Luigi Di Ruscio scrive all’amico Christian Tito, un mese prima della sua morte, avvenuta il 23 febbraio 2011. Prima di allora i due poeti si erano scritti email con regolarità per un anno e mezzo, da quando Christian aveva contattato Luigi sull’onda dell’entusiasmo per L’ultima raccolta acquistata nella milanese Libreria del Mondo Offeso. I loro scambi, combattuti tra il desiderio di incontrarsi di persona e la voglia di fondare il loro rapporto unicamente “sullo strumento ch e utilizzano i poeti per tentare l’arte: la parola”, vengono riportati a partire da questo congedo rinunciando all’ordine cronologico in favore di raggruppamenti tematici che consentono di esplorare meglio i nodi di questa relazione maestro-allievo. Ruoli che fin da subito si rivelano ambivalenti: se l’ottantenne Di Ruscio, uno dei maggiori poeti italiani contemporanei, si pone come modello artistico e costante alimento del sogno del giovane scrittore, questi assume a sua volta con fermezza e fervore un ruolo di guida. Raccogliendo le confidenze di Luigi, Christian offre al lettore uno sguardo prezioso sull’umanità dell’artista e al tempo stesso assicura a quest’ultimo la necessaria fiducia per avviarsi verso la propria “resurrezione”. Le lettere, editate in modo da garantire l’appassionante fluire del romanzo epistolare, lasciano a volte spazio ai versi come invito ad approfondire l’opera di entrambi gli autori, accomunata dall’intrecciarsi di poesia e vita, nel segno di un conflitto tra la fiducia ostinata, l’amore tenace (soprattutto per le mogli) e la consapevolezza di vivere in un “mondo offeso”. In particolare la vocazione della scrittura trova al tempo stesso ostacolo e ispirazione nella dura quotidianità lavorativa: alla Christiania, la fabbrica di chiodi “di cui mai saprò chi andranno a crocifiggere”, dove Di Ruscio ha lavorato per quarant’anni dopo essere immigrato in Norvegia fanno da contraltare la farmacia dove Christian deve fare i conti con il potere delle multinazionali e l’Ilva, altra fabbrica infernale che ha dato lavoro e morte al padre del giovane poeta. Ma quello che è forse l’aspetto più interessante del libro è il delinearsi della lotta che il tentativo della scrittura comporta, una lotta dalla quale tuttavia si può trarre speranza: man mano che affiorano i dubbi, le frustrazioni, la difficoltà di essere riconosciuti, si fa sempre più strada la consapevolezza che la poesia sia ancora la chiave di lettura più autentica e profonda dei nostri tempi: non importa se voi non leggete le poesie / perché sarà la poesia a leggervi tutti (Christian Tito).

Christian Tito e Luigi Di Ruscio, Lettere dal mondo offeso, L'Arcolaio 2014

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