Editoriale

di Francesca Del Moro

La città raccontata dai poeti presentati in questo numero è un luogo inospitale, che gli individui attraversano incontrandosi di rado o, al massimo, urtandosi. Con i suoi versi densi e precisi, Martina Campi fotografa un paesaggio urbano in cui elementi naturali e artificiali congiurano ad amplificare il senso di solitudine e oppressione. Sonia Lambertini mostra lo scenario desolato di una disperata lotta per la sopravvivenza in quello che potrebbe essere l’ultimo fotogramma di un film catastrofico mentre, in mezzo a una folla-giostra alle prese con il viavai quotidiano, Rita Stanzione lascia trapelare la possibilità di un contatto autentico nello slancio innocente dell’infanzia, chiudendo con un interrogativo difficile da dimenticare. Con il suo stile elegante ed evocativo, Alessandro Silva staglia sullo sfondo opaco delle viscere della città la figura viva e delicata di un uomo prossimo all’addio, che ricorda il commovente personaggio della canzone La Construçao di Chico Buarque de Hollanda. Un addio semplicemente vagheggiato nei versi melodiosi di Adele Musso, quasi una filastrocca che esprime attraverso il gioco un malinconico anelito di libertà.

L’uomo che danza

di Alessandro Silva

Linea Rossa, fermata Rovereto.

Due minuti dolci per udire il cielo
e sfiorare il fumo di luce, abbiamo

L’uomo con le mani in tasca a danzare
passi davanti le obliteratrici
della metropolitana, la barba
con i capelli accostati secondo
una strana follia, questa mattina
compare in sagoma distante. Canta
a bocca chiusa a fianco del profondo.
C’è chi lo scansa perché pazzo danza
sospeso sul vuoto, le labbra sono
morsi di buio breve che si ciba
dei giorni, il suo sangue furioso sale
raggrumato e potrebbe crollare.

Si attende il suono attutito sulla banchina
l’occhio ammutolito da uno splendente candore.

Hai detto

di Sonia Lambertini

Hai detto
aspettami
giù, alla strada fondo cieco
East Side muri di crosta
giallo sporco, polvere
giochi abbandonati
e noi come cani
alla fine del mondo
a rubarci gli avanzi.

La mano che regge l’aquilone

di Adele Musso

La mano che regge l’aquilone
sa che potrebbe volare
s’accontenta, il pugno,
di stringersi
a un filo di vento
Schegge, d’esplosivo colore,
stracciano cieli cobalto
È il peso della vita
che ci trattiene verso il basso
mentre l’acrobata dell’etere
volteggia e irride l’uomo
fuggendo
verso l’alto.

Si stende una vela – si muove il mare

di Rita Stanzione

Uno sguardo straniero si è messo al centro della piazza
non si può ignorare non sarà sempre un caso
Si deve girare l’indaffarato viavai controvento
il fruscio elegante senza un’orma di polvere
mentre sotto le scarpe è un pullulare di resti da misere cene
fazzoletti inzuppati di attese e aride piogge

Un bambino smette di girare nel vuoto, si domanda
se seguire quel flusso disciplinato dagli occhi lontani
o giocare con lui sconosciuto che di proprio ha solo il sorriso

Commuove vederlo offrire una biglia, è chiara la sua mano
che stende una vela: muove il mare
Si lascia portare dove va il cuore – piccolo e grandioso
senza saperlo

Ché poi ci sarà almeno uno di noi
a spiegargli quella parola (umanità)
tanto piena e non si sa come
l’hanno inventata tronca

Annotazione di cuore cavo

di Martina Campi

Il sole precipita a blocchi sulla strada.
La strada, che è vuota e le persiane serrate, doppie.

Non ci sono fratelli e non ci sono sorelle

Non resta altro che questo cielo feroce e griglie di palazzi
sostenuti da cavità di solitudini nel caldo

Un’attesa di luce che non nutre la notte infinita.

SALENTITUDINE

Primo volume della “Trilogia delle radici” di Vanni Schiavoni, Salentitudine è una raccolta di “cartoline in versi” secondo la definizione dell’autore. Con le cartoline questi componimenti hanno in comune la sintesi, che qui si traduce in coaguli poetici da dipanare, caratterizzati da un linguaggio denso e ricercato che tuttavia ha il pregio dell’immediatezza comunicativa. Della cartolina non si perde neppure l’aspetto visivo, al quale le parole sopperiscono cogliendo scorci da prospettive mutevoli, paesaggi assolati, scene di vita quotidiana. A svolgersi è un tempo spesso sonnacchioso, gravato da una paciosità da dopopranzo al sole o in lenta ascesa per viottoli pietrosi, su cui si stendono le ombre del retaggio storico, come quelle delle rocce lasciate a guardia dalla Magna Grecia. L’occhio indugia sui dettagli, senza trascurare nulla: persone, animali, frutta e verdura, viste naturali e artificiali. Si sentono i suoni (echi di Bob Dylan, rintocchi di campane, spartiti di grilli, fischi e raucedine…) e gli odori (di fichi, di timo, di donna). Ci si sofferma sui particolari dei corpi, dalle mani callose del contadino con le unghie ingiallite dalla nicotina a mani di ceramica su un grembiule, dalle labbra con sigaro o pipa al guinzaglio ai piedi e alle cosce su cui si raggrumano i suoni della pizzica. Dai luoghi in cui il poeta ci trascina prendendo all’amo i nostri sensi germinano riflessioni e interrogativi, che alla geografia si intrecciano saldamente. Ci si muove tra cespugli di ideologia, in corti di nessi incalcolabili, mentre gazze lucidano pensieri su cui possono depositarsi gocce di iodio. Sono i luoghi stessi a porre le domande che scandiscono il libro (secondo la regola delle cinque w: dove, quando, cosa, chi, perché) e che, mancando il punto interrogativo, potrebbero far pensare ad affermazioni che si articoleranno nelle poesie di ciascuna sezione. Si delinea un percorso alla ricerca di sé in cui a investigare le proprie radici è uno sguardo in parte divenuto estraneo, come quello dei turisti con i quali il poeta si confonde nel primo componimento. Così, nell’aria “fasciata di abitudini vecchie”, anche noi siamo portati a seguire il percorso circolare di una “vita abituata al tondo”: il tondo dei trulli, del giro dello scalpello sulla pietra leccese, di questo libro che non si può non tornare a leggere.

Vanni Schiavoni, Salentitudine, © 2006, Lietocolle

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