Per le ragazze e i ragazzi siriani che camminano su sentieri impervi alla ricerca della propria libertà

di Cristiana Pezzetta

La scuola è finita. Quest’anno non ce l’ho fatta. Tanto sarebbe stato inutile. Mi sono beccata matematica.
E ora ci sono gli esami. Subito.
«Così ci togliamo presto il dente che duole», dice sempre mia nonna.
Come facesse meno male. Ma ora è diverso. Non sento neanche arrivare i miei soliti attacchi di colite da ansia.
Semplicemente sto qui immobile a incantare il tramonto. Almeno lui è rimasto lì, come l’anno passato. Io no invece.
Degli esami non me ne frega assolutamente nulla. Davvero. Niente. Tanto non mi possono mica bocciare per una materia.
E poi ci sono cose peggiori, credo, di una bocciatura.
Ho stampato più di centocinquanta foto che oramai si sono consumate sui bordi per quante volte me le sono rigirate tra le mani. E il suo disegno è sempre lì, al suo posto, sopra il mio letto.
Sono mesi che aspetto, giorni, ore. Controllo tre volte al giorno nella buca delle lettere. Sempre piena delle solite cartacce, ma nemmeno un pezzo di lettera aperta e richiusa. Niente, da qualche mese niente.
Le cose peggiori accadono così, di giorno in giorno, di ora in ora, senza che tu possa deviare anche solo per un attimo il loro percorso.
Ancora non posso credere che sia vero. Che la vita di qualcuno possa essere spazzata via da una stupida guerra, lontana, di quelle che non fanno rumore, quelle di cui qualcuno parla per dire che ci mancava solo un’altra guerra. Come se toccasse a loro.
Una guerra che sembra esistere solo per me e per... Aima, la mia ‘qualcuno’.
Questa notte mi sono svegliata di soprassalto con il suono del Muezzin e con i boati delle bombe che cadevano vicino. Ho sognato una casa, scoperchiata da un’esplosione come fosse un formicaio, mentre le persone dentro guardavano il cielo con occhi grandi di paura.
Non ho mai sentito il tonfo che fanno le bombe quando cadono, il cigolio dei carri armati o lo stridore della paura.
Il canto del Muezzin l’ho sentito invece, abbastanza a lungo, da scavarmi dentro buchi di nostalgia, così profonda da farmi male, come un dolore che mi toglie il respiro. Dolore di nostalgia per Aima, per quello che siamo diventate lungo una strada fatta di pagine scritte a mano, in questo anno trascorso al ritmo di lettere inviate e ricevute.
Passo ore davanti a questo stupido schermo di computer. Ho paura, tanta paura di leggere il suo nome tra le righe. L’esercito è arrivato nella regione di Idlib. Saraqeb è distrutta. Dove ho mangiato il mio primo gelato alla rosa. Dove è anche il villaggio di Aima.
E non c’è nulla che io possa fare, nulla che può cambiare lo stato delle cose. Nessuno che provi a fare qualcosa per questa gente. Una guerra fantasma, trasparente per tutti. Tranne che per me.

(Prologo, tratto da Sorelle di carta, Mammeonline, 2014)