checifaccioqui

Carne

di Cecilia Resio

Il ristorante turco si chiamava Cappadoce e a mezzogiorno e mezzo in punto
ho stretto la mano a un cameriere con le sopracciglia folte e nere come quelle di Mangiafuoco.
Vorrei parlare italiano, quando tira vento mi si sparpagliano in testa le parole francesi.
La grigliata mista non è male, dice Juliette. Credo a Juliette e credo nella grigliata mista.
Arriva un piatto ovale con svariati pezzi di carne, accerchiati da foglie d’insalata stanca e da un risotto speziato molto giallo.
Trafiggo, scosto, ascolto, mastico.
Sorrido.
Mentre traduco simultaneamente, cerco di capire con la mia lingua cosa ho sotto i molari.
Agnello non è, montone nemmeno, manzo non se ne parla, pollo non sembra.
Fegato di qualcosa.
Ha una consistenza misteriosa: né molle, né duro, né cotto, né crudo.
Salato, non molto, dolce nemmeno.
Assumo l’espressione spavalda e atterrita di chi è posseduto da un boccone ostile.
È il cibo che mi sta masticando, non viceversa.
Non traduco più, chiudo i battenti alla comprensione.
Bevo acqua, bevo. Ingoio.
Guardo nel piatto: vicino a un cipollone deceduto mi sta osservando, muto per sempre,
il fratello del boccone oramai morto e sepolto nella mia pancia.
È simile, molto simile al parente trapassato.
Assai tondo, una specie di piccola patata viscida color sangue.
Una palla, non perfettamente sferica. Prima erano due.
Realizzo che ho appena mangiato un coglione.
Poco male, sempre meglio che viverci.