Il curatore dei defunti

di Cecilia Resio

Ogni uscita è un’entrata in un altrove.

Tom Stoppard

Beccamorto, becchino, scavafosse, affossatore. Così chiamano, spesso con scherno o disprezzo, la persona che si prende cura dei morti. Il Caronte metropolitano, colui che assiste allo spettacolo del dolore, l’uomo che vive fra lacrime e terra smossa, sotto l’ombra di alberi frondosi, custodi di segreti e di preghiere.
Il cimitero di Montmartre, a Parigi, accoglie visitatori, persone in lutto, vedovi e vedove, orfani, turisti, apre le sue braccia di marmo e bronzo e invita al silenzio, al pensiero, alla meditazione. Paragonato al Père Lachaise, questo cimitero è meno spettacolare, per bellezza del luogo e sepolcri di trapassati illustri, ma possiede un fascino misterioso fatto di decadenza e austerità, dimostra tutte le età del mondo e fa rallentare la circolazione del sangue nelle vene, quasi dilatasse il tempo, scandendo un ritmo nuovo, inventandolo.
È qui che ho conosciuto Victor, il curatore di defunti. Così l’ho chiamato io, facendolo sorridere. Victor, quel giorno, vestiva di blu Klein. Indossava giacca e pantaloni, come se non fossero suoi, come se abitasse i vestiti per caso, senza l’intenzione di averli addosso. Mi ha detto che veniva dai Caraibi e che credeva in molti dèi. Mi ha accompagnato alle tombe di personaggi famosi anche da morti: quella di Dalida, quella di Truffaut, quella di Berlioz e poi Offenbach, Zola e la Signora delle camelie, l’appassionata e intelligente Alphonsine Plessis.
Ma a me, in quel momento, interessava la vita dei vivi e in special modo la sua. Quindi l’ho invitato gentilmente a parlarmi del suo lavoro e ho cominciato ad ascoltarlo posando gli occhi sulle lapidi, sui caratteri ossidati dal verde sorprendente, sui visi di marmo alterati dal dolore, leggendo epitaffi solenni o amorosi, accompagnata dal suono di gazze e corvi rumorosi.
Camminavo fra parole potenti come riposo, amore, compassione, eterno, patria, polvere, paradiso. Victor mi disse che non riusciva ad abituarsi al dolore altrui, che durante i funerali e le inumazioni talvolta si commuoveva fino al pianto. Poi mi raccontò dei fuochi fatui, della manutenzione delle tombe, del muschio che cresceva al ritmo della pioggia, delle lumache che passavano silenziose sul marmo, lasciando la loro firma luminosa.
Quando ci siamo salutati ho pensato che era una persona coraggiosa, non perché lavorava con i morti, ma perché sapeva riconoscere le proprie emozioni, era in grado di lasciarsi attraversare dai sentimenti più profondi e misteriosi. Senza giudizio, senza commiserazione, senza timore.
Con un grande rispetto per la vita altrui,
anche per quella che è finita.