“C’era una volta una città di bimbi appollaiati sui pali delle cozze a pescare.
Una città povera, un vascello sdrucito… ” scriveva Tommaso Fiore.
Taranto arriva, dall’Altopiano, con tutta la sua grazia e la sua violenza.
Avvolta nella nube rossa della cattedrale di acciaio che la avvinghia e la corrode ogni giorno.
Da diversi anni scendo da nord a sud per raggiungere una parte di mare che porta sogni e meraviglia.
Appena l’autostrada finisce, la vedo già: la grande ILVA, il grande stabilimento siderurgico, una volta chiamato ITALSIDER, che doveva portare progresso ma che è solo servito a riscrivere la tragedia di Medea.
ILVA, Mostro che sputa veleni e fuoco.
ILVA, Polipo tentacolare che artiglia la città.
Divora le vite dei lavoratori e della gente che vi abita.
Teatro spettrale di questo pezzo di mondo che inghiotte tutto.
Apocalisse di una Terra che non abbiamo saputo difendere.
Qui il verde non è più verde e il blu non è più blu.
La polvere rossa mangia l’aria, le piante, i fiori, i polmoni.
Ma Ilva non è solo acciaio, Ilva è carne viva.
Degli uomini dai volti stanchi, dei pendolari, delle famiglie.
Ilva, solidarietà e menzogne.
Silenzi e grida.
Turni di lavoro e Gratta e vinci.
Speranze e illusioni.
Sogni di macchine di lusso e turni massacranti.
Ilva è sangue al naso e latte materno che porta veleno.
Storie di uomini strappati alla terra e al mare, con la promessa della grande industrializzazione del Mezzogiorno.
Ilva è stata speranza, silenzio e compromesso. “Mange e citt”. Mangia e zitto.