Si sta come / d’autunno / sugli alberi / le foglie (G. Ungaretti, Soldati)
Havel havalim. (Qohelet)
La vanitas è un concetto la cui antica origine viene fatta risalire all’Ecclesiaste, libro sapienziale della Bibbia (IV o III secolo a.C.). È il sentimento di impotenza di fronte all’impermanenza delle cose; è il riconoscere nella morte la sconfitta di ogni nostro sforzo terreno. Ci affanniamo tanto per avere ricchezza, gloria, fortuna e potere; combattiamo contro le ingiustizie, in nome di un ordine morale superiore; cerchiamo l’amore e l’affetto, lavoriamo per lasciare ai nostri figli qualche bene materiale, nella continua illusione che il nostro passaggio sulla Terra non verrà dimenticato, che significhi qualcosa. Eppure, tutto questo turbinare di desideri e questo infinito logorio non è altro che “soffio dei soffi”, è un “rincorrere il vento”. Tutto è vanità.
Questo apparente nichilismo è forse in realtà un fertile stratagemma filosofico: si tratta di fare terra bruciata di tutte le nostre illusioni. Una volta accettata intimamente l’insensatezza delle cose, e soltanto allora, potremo cominciare a comprendere sinceramente cosa davvero valga la pena perseguire; soltanto fissando lo sguardo nell’abisso vedremo emergere il nostro autentico volto.
Questo breviario a uso degli artisti si propone di presentare alcune classiche forme iconografiche che il concetto di vanitas ha sfruttato per emergere nell’arte occidentale. Alcune sono piuttosto famose, altre meno. Tutte cercano di staccarci dal nostro punto di vista quotidiano, dalla nostra ricercata e voluta miopia, a cui ci aggrappiamo con le unghie e coi denti, che ci impedisce di scorgere il terribile quadro d’insieme: quello che svuota e annulla ogni nostro sforzo concreto. Havel havalim: la più grande delle vanità.
NATURA MORTA
Conosciamo tutti le composizioni di frutta, fiori, pesci e altri oggetti inanimati. Eppure in queste rappresentazioni pittoriche è sempre presente un monito alla caducità dell’esistenza: fiori appassiti, carni macellate, frutta ormai separata dai rami divengono simboli della precarietà e, pur in un contesto estetizzante e a suo modo “teatrale”, costituiscono una messa in scena della fine della vita.
MEMENTO MORI
“Ricordati che devi morire”. Il celebre ammonimento ha finito per essere simboleggiato dal teschio umano. Non c’è nulla di più definitivo di un cranio, al cui specchio oscuro non si può sfuggire. Nei secoli la rappresentazione del teschio ha conosciuto un’evoluzione lunghissima ed estremamente articolata; sono stati prodotti anche monili di vario tipo, teste bifronti che presentavano un volto su uno dei lati e un teschio sull’altro, Cristi scheletrici, e via dicendo. Oggi, di questa iconografia si sono impossessate l’arte concettuale (basti pensare al teschio di diamanti di Hirst), la pop art e perfino la moda. Ormai i teschi appaiono su t-shirt, tatuaggi, borsette. Svuotati di ogni significato, non sono forse un’altra dimostrazione che tutto – simboli inclusi – non è altro che vanità?
LE TRE ETÀ DELL’UOMO
Un bambino, un adulto, un vecchio morente. Questione di assumere un punto di vista che ci permetta di vedere la vita di un uomo nel suo insieme. È una parabola naturale, che finisce con la decadenza fisica che prelude alla morte. Nascere, crescere, morire: a cosa è servito?
ET IN ARCADIA EGO
L’Arcadia è un periodo storico che nel tempo è stato trasfigurato in una sorta di paradiso terrestre, in cui nessuno aveva bisogno di lavorare perché la natura dispensava abbastanza frutti da permettere una vita di piacere. Uomini e spiriti del bosco vivevano fianco a fianco. “Anch’io ero in Arcadia”, dice l’iscrizione sulla tomba. Chi pronuncia questa frase? Il morto, come a dire “anch’io una volta ho goduto dei piaceri della vita, e ora guardatemi”? Oppure è la morte stessa a parlare? “Perfino in Arcadia, io c’ero”...
ARS MORIENDI
L’arte di morire era il soggetto di svariati libriccini che indicavano il modo giusto per concludere la propria vita secondo i precetti cristiani. Le raffigurazioni mostravano solitamente un uomo che moriva nel proprio letto, attorniato da angeli da una parte e diavoli dall’altra. La scelta tra una buona o una cattiva morte sta a noi.
HOMO BULLA
L’uomo è come una bolla di sapone, pronta a scoppiare al minimo soffio di vento. Siamo tutti come bambini che giocano con le bolle, ignari di fronte al nostro destino crudele. Il gioco diviene simbolo del nostro approccio infantile alle questioni della vita, e infatti nella maggior parte di queste rappresentazioni il soggetto principale è un adolescente.
TRIONFO DELLA MORTE
La morte con la falce proviene da qui: tipica rappresentazione in epoca di peste, la morte è raffigurata come una figura imponente e terrificante, spesso a cavallo di un destriero d’oltretomba, pronta a falcidiare folle intere senza alcuna distinzione fra ricchi e poveri, papi e principi, nobili e contadini. È l’irruzione del lato più assurdo e fantastico dell’epidemia, il sublime kantiano, la sensazione di essere sull’orlo del baratro, e di non avere nessun tipo di arma a disposizione, di fronte alla lama affilata dell’ignoto.
LA MORTE E LA FANCIULLA
Un cadavere putrefatto bacia una bella ragazza seminuda: l’accostamento è scioccante e tragico. La vanità della forma fisica, della bellezza, della giovinezza è qui esposta nel modo più crudo possibile. Continua a guardarti nello specchio, dolcezza. Presto il tuo corpo sarà cibo per vermi e larve. E allora, a cosa serve il culto dell’apparenza? Anche le grazie terrene non sono altro che illusione, “inseguire il vento”.
LA LEGGENDA DEI TRE VIVI E DEI TRE MORTI
Una leggenda originatasi in Francia. Tre personaggi vivi (solitamente, un duca, un conte e un principe) se ne vanno a cavallo per la campagna e a un certo punto incontrano tre cadaveri parlanti. I morti dicono loro: “Così come noi eravamo ciò che voi siete, così noi siamo quello che voi sarete. Il benessere, l’onore e la potenza non sono valori, nell’ora della vostra morte”. All’inizio i tre morti erano raffigurati come scheletri; in seguito, vennero mostrati giacenti in tre bare distinte, ognuno a uno stadio diverso di putrefazione.
DANZA MACABRA
La rappresentazione forse più impressionante, più complessa e artisticamente intrigante fra tutte è quella che vede alcuni scheletri e cadaveri tenere per mano uomini vivi (spesso nobili e potenti) per trascinarli in una danza scatenata e febbrile. È la danza macabra, danse macabre in francese, Totentanz in tedesco, che sembra un riassunto terribilmente farsesco delle nostre esistenze. È una vera e propria figurazione del mondo: morti e vivi, a braccetto, ballano al ritmo della musica delle sfere. Non c’è distanza, inutile pensarci differenti da chi è passato prima di noi; siamo tutti sulla stessa barca, intenti in un’assurda danza. Non c’è nulla che possiamo fare, l’unica alternativa è ballare. E – chi può saperlo – forse in questo surreale girotondo potremo trovare un briciolo di gioia, di felicità e magari, arrendendoci alla transitorietà delle forme, scoprire che non ha importanza tutto quello che ci sembrava essenziale – il senso, il perché, il motivo: l’importante è lasciarsi trascinare dall’euforia (tragica e bellissima) dell’infinita danza del cosmo.