Scrivere la parola “pugno”

di Jonathan Safran Foer

Dall’ultima volta che ho controllato il tetto di casa mia è passato così tanto tempo che non so quantificarlo. Non mi viene in mente di controllarlo perché non lo vedo: non vedo in che condizioni è, letteralmente, e a differenza di una macchia d’acqua sul soffitto, che è esteticamente sgradevole, un tetto decrepito non è un obbrobrio o una fonte di imbarazzo. Se anche riuscissi a esaminarlo, non essendo un esperto probabilmente non saprei dire se ha bisogno di riparazioni a meno che sia completamente da rifare. E di fronte alla prospettiva di dover rifare il tetto, preferisco evitare di scoprire se c’è bisogno di ripararlo.
Il mio figlio minore l’altra sera ha avuto un incubo mentre stavo facendo la doccia. L’ho sentito piangere attraverso lo scroscio dell’acqua, il vetro del box e i tre muri che ci dividevano. Nel tempo che ho impiegato a raggiungere il suo letto, era già sprofondato di nuovo in un sonno pacifico. La sua camera da letto sontuosamente arredata sta sotto un tetto che forse si sta deteriorando.
Forse la mia capacità di sentire il suo pianto sommesso è un esempio di super forza, ma qual è la debolezza che mi consente di ignorare il tetto precario e il cielo precario sopra di lui? Scommetto che a ogni ebreo del villaggio di mia nonna sarà capitato di scacciare una mosca che gli si era posata sulla pelle. Qualunque sia la cosa che mi consente di ignorare il mio tetto e il clima, è la stessa che consentì a così tanti di loro di rimanere pur sapendo che stavano arrivando i nazisti. Il nostro sistema di allarme non è fatto per le minacce concettuali.
Ero a Detroit quando l’uragano Sandy stava per colpire la costa Est. Tutti i voli per tornare a New York erano stati cancellati e anche nei giorni successivi sarebbe stato impossibile prendere un aereo. Ma per me la prospettiva di non essere con la mia famiglia era intollerabile. Non che la mia presenza a casa fosse essenziale – avevamo abbondanti scorte di bottiglie d’acqua e di cibo non deperibile nella dispensa, torce elettriche con le pile nuove – ma dovevo essere lì. Scovai l’ultima macchina a noleggio della zona e mi misi al volante alle undici di sera. Dodici ore dopo, raggiunsi con la macchina il fronte dell’uragano. Vento e pioggia rendevano quasi impossibile proseguire. Per l’ultima ora di viaggio ne impiegai quattro. I bambini dormivano quando arrivai a casa. Telefonai ai miei genitori, come avevo promesso, e mia madre mi disse: «Sei un padre meraviglioso».
Avevo guidato per sedici ore fino a casa semplicemente per essere lì. Nei giorni, mesi e anni successivi, non ho fatto sostanzialmente nulla per ridurre le possibilità che un altro devastante uragano colpisse la mia città. È già tanto se mi sono chiesto cosa avrei potuto fare.
Percorrere tutta quella strada in macchina mi fece sentire bene. Essere lì, non fare niente, mi fece sentire bene. Mi fece sentire bene sentirmi lodare da mia madre perché ero un bravo genitore e, quando i miei figli scesero al piano di sotto, vedere che erano sollevati per la mia presenza. Ma che razza di padre antepone il sentirsi bene all’agire bene?
Ero un bambino quando imparai perché la parola «ambulanza» è scritta al contrario. La spiegazione mi piacque molto. Adesso che sono cresciuto, però, non riesco a capire una cosa: esiste qualcuno che vedendo un’ambulanza nello specchietto retrovisore – lampeggianti che girano, sirene spiegate – ha bisogno della parola «ambulanza» per riconoscerla? Non sarà come un pugile che scrive la parola «pugno» sui guantoni?
Corro per scacciare un incubo dalla testa di mio figlio ma non faccio quasi niente per prevenire un incubo nel mondo. Se solo potessi percepire la crisi del pianeta come mio figlio che mi chiama nel sonno. Se solo potessi percepirla esattamente per ciò che è.
Qualche volta un pugno deve avere scritta sopra la parola «pugno». L’uragano Sandy ha flagellato casa nostra e la nostra città. Abbiamo incassato i suoi pugni senza saperli identificare come pugni; per quasi tutti noi era solo un fenomeno meteorologico. Giornalisti, conduttori televisivi, politici e scienziati erano restii a identificarlo come un effetto dei cambiamenti climatici, a meno che qualcuno non presentasse prove dotate di un grado di certezza che non avremo mai. E in ogni caso, che cosa si può fare con i fenomeni meteorologici, se non accettarli?
Io voglio che mi importi della crisi del pianeta. Mi considero, e voglio essere considerato, uno a cui importa. Esattamente come mi considero, e voglio essere considerato, un padre meraviglioso. Esattamente come mi considero, e voglio essere considerato, una persona a cui importa delle libertà civili, della giustizia economica, delle discriminazioni e del benessere degli animali. Ma queste identità – che ostento con zelo esibizionistico e lunghe filippiche alle cene tra amici – non servono tanto a infondermi senso di responsabilità, quanto piuttosto a scagionarmi. Più che riflettere delle verità, mi offrono modi per evaderle. Non sono affatto identità, tutt’al più identificatori.
La verità è che non mi importa della crisi del pianeta – non al punto di crederci. Mi sforzo di superare i miei limiti emotivi: leggo i comunicati ufficiali, guardo i documentari, partecipo ai cortei. Ma i miei limiti non si smuovono. Se do la sensazione di esagerare o fare troppa autocritica – com’è possibile dichiararsi indifferenti all’argomento del proprio libro? – è perché anche voi avete sopravvalutato il vostro impegno e contemporaneamente sottovalutato quello che servirebbe.
Nel 2018, pur sapendo più di quanto abbiamo mai saputo sull’origine umana dei mutamenti climatici, l’umanità ha prodotto più gas serra che mai, con un aumento triplo rispetto a quello della popolazione mondiale. Esistono spiegazioni dettagliate: il crescente consumo di carbone in Cina e in India, un’economia globale in espansione, stagioni con temperature insolitamente estreme che hanno reso necessari picchi di consumo energetico per il riscaldamento e il rinfrescamento. Ma la verità è tanto ovvia quanto cruda: non ce ne importa nulla.
E quindi?

Jonathan Safran Foer
Possiamo salvare il mondo, prima di cena. Perché il clima siamo noi
Guanda 2019