Mostrate le mani

di Jonathan Safran Foer

Quando si parla di carne, latticini e uova la gente si mette sulla difensiva. Si infastidisce. A parte i vegani, nessuno muore dalla voglia di affrontare l’argomento, e il fatto che i vegani ne abbiano voglia costituisce un ulteriore disincentivo. Ma non abbiamo nessuna speranza di contrastare i cambiamenti climatici se non possiamo parlare seriamente delle cause che li provocano, oltre che delle nostre potenzialità, e dei nostri limiti, nel compiere i necessari cambiamenti.
[…] Serve un’azione collettiva per cambiare il nostro modo di mangiare – nello specifico, niente prodotti di origine animale prima di cena. È una tesi difficile da sostenere, sia perché riguarda un tema controverso sia per il «sacrificio» che comporta. Quasi tutti amano il profumo e il gusto della carne, dei latticini e delle uova. Quasi tutti apprezzano la funzione che i prodotti animali svolgono nelle loro vite e non sono pronti ad assumere nuove identità alimentari. Quasi tutti mangiano prodotti animali a quasi tutti i pasti da quando erano bambini, ed è difficile cambiare le abitudini consolidate, anche quando non coinvolgono il piacere e l’identità. Si tratta di sfide importanti, che meritano di essere prese sul serio, anzi devono assolutamente essere prese sul serio. Cambiare il nostro modo di mangiare è semplice rispetto alla conversione della rete energetica mondiale o all’introduzione di una carbon tax nonostante il parere contrario di lobby molto influenti o alla ratifica di un importante trattato internazionale sulle emissioni di gas serra – ma non è semplice.
Quando ero sulla trentina, ho passato tre anni a svolgere ricerche sugli allevamenti intensivi e ho scritto un intero libro di critica a quel modello: Se niente importa. Perché mangiamo gli animali?. Poi ho passato quasi due anni a tenere centinaia di letture pubbliche, conferenze e interviste sull’argomento, spiegando che non bisognerebbe mangiare carne proveniente dagli allevamenti intensivi. Quindi sarebbe molto più facile per me non citare il fatto che in alcuni periodi difficili negli ultimi due o tre anni – mentre affrontavo passaggi dolorosi della mia vita privata, mentre viaggiavo per il paese per promuovere un romanzo pur essendo la persona meno indicata per l’autopromozione – ho mangiato carne un certo numero di volte. In genere hamburger. Spesso in aeroporto. Vale a dire, carne proveniente esattamente dal genere di allevamenti contro cui mi sono scagliato con più veemenza. E la ragione per cui l’ho fatto rende la mia ipocrisia ancora più patetica: mi dava conforto. Immagino che questa confessione susciterà commenti ironici, occhiate sarcastiche e qualche infervorata accusa di fraudolenza. Altri magari ne saranno sinceramente disturbati – ho scritto a lungo, e con passione, su come gli allevamenti intensivi torturino gli animali e distruggano l’ambiente. Come faccio a promuovere un cambiamento radicale, come  faccio a crescere i miei figli vegetariani, se poi mangio carne alla ricerca di conforto?
Vorrei aver trovato conforto altrove – in qualcosa che avesse un effetto durevole e che non contrastasse profondamente con le mie convinzioni – ma sono quello che sono e ho fatto quello che ho fatto. Anche mentre lavoravo a questo libro e il mio impegno a favore del vegetarianismo – nato a partire dalla questione del benessere degli animali – si radicava ulteriormente grazie a una piena consapevolezza delle conseguenze per l’ambiente, è passato di rado un giorno senza che avessi voglia di carne. A volte mi sono chiesto se rafforzare il mio rifiuto sul piano intellettuale abbia contribuito a rafforzare il mio desiderio di mangiarla. In ogni caso mi sono dovuto rassegnare al fatto che mentre le azioni possono perlomeno in qualche misura rispondere alla volontà, le voglie e i desideri non possono. Ho provato l’esperienza di sapere-senza-credere, simile a quella di Felix Frankfurter, che mi ha messo in reale difficoltà, portandomi talvolta a un’ipocrisia estrema. Condividere questo fatto mi provoca un imbarazzo quasi insopportabile. Ma va condiviso.
Mentre promuovevo Se niente importa, spesso mi chiedevano perché non fossi vegano. Il benessere degli animali e i danni all’ambiente sono argomenti altrettanto efficaci contro il consumo di latticini e uova quanto contro il consumo di carne, e spesso persino più forti. Qualche volta mi nascondevo dietro la difficoltà di cucinare per due bambini schizzinosi. Qualche volta piegavo la verità e mi definivo «sostanzialmente vegano». In realtà, non avevo una risposta se non quella che mi vergognavo troppo a dire ad alta voce: il desiderio di mangiare uova e formaggio era più forte del mio impegno a impedire la crudeltà nei confronti degli animali e la distruzione dell’ambiente. E la tensione che provavo era in qualche modo alleviata dal fatto di dire ad altri di fare quello che io non riuscivo a fare.
Affrontare la mia ipocrisia mi ha ricordato quanto sia difficile vivere – o anche solo cercare di vivere – con gli occhi aperti. Sapere che sarà dura aiuta a rendere possibili gli sforzi. Gli sforzi, non lo sforzo. Non riesco a immaginare un futuro in cui decido di tornare a essere carnivoro, ma non riesco a immaginare un futuro in cui non avrò voglia di mangiare carne. Mangiare in modo consapevole sarà uno degli sforzi che misureranno e definiranno la mia vita. Intendo questo sforzo non come una forma d’incertezza sul modo giusto di alimentarsi, ma come funzione della complessità dell’alimentazione.
Noi non ci limitiamo a riempire le nostre pance e non ci limitiamo a modificare i nostri appetiti in ragione di principi. Mangiamo per soddisfare desideri primitivi, per plasmare ed esprimere noi stessi, per creare comunità. Mangiamo con la nostra bocca e con il nostro stomaco, ma anche con la nostra mente e con il nostro cuore.

Jonathan Safran Foer
Possiamo salvare il mondo, prima di cena. Perché il clima siamo noi
Guanda 2019