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Il settimo giorno

di Yu Hua

TERZO GIORNO

Cammino lungo i binari che paiono raggi di luce, in cerca di quella casetta traballante affollata di ricordi d’infanzia. Davanti agli occhi ho pioggia e neve, oltre vedo schiere di palazzoni a tanti piani tempestati di finestre spente. Quando tento di avvicinarmi, si allontanano. Quel mondo sta svanendo.
A tratti sento i rimproveri di mio padre, sono distanti, e così cari. Si affastellano nelle mie orecchie, come i piani dei palazzi in lontananza, e mi sfugge un sorriso.
Per un lungo periodo, Yang Jinbiao rimase convinto che i miei genitori mi avessero abbandonato sulle rotaie perché un treno mi travolgesse, infatti borbottava: “Come possono esistere genitori così crudeli?”.
Questa fissazione lo portò a volermi ancora più bene. Nel momento in cui passai dalle rotaie alle sue braccia, diventai la sua ombra. Poco alla volta crebbi dentro un marsupio di stoffa appoggiato sul suo petto. Il primo lo fece Li Yuezhen con le sue mani ed era blu. Gli altri li cucì lui, ed erano sempre blu. Ogni mattina, prima di andare al lavoro, preparava il latte in polvere e lo versava nel biberon, che poi si infilava nella giacca, sopra il petto, dove batte il cuore, per mantenerlo a temperatura con il suo calore. Aveva me nel marsupio, una borraccia militare a tracolla e due fagotti in spalla, uno con i pannolini puliti, l’altro per quelli sporchi di cacca.
Faceva avanti e indietro per le manovre sugli scambi ferroviari, con me che dondolavo sul petto: la culla più bella del mondo, dove ho dormito i sonni più dolci. Non mi sarei mai svegliato, se non avessi avuto fame. Quando piangevo, capiva che volevo mangiare, allora afferrava il biberon e me lo ficcava in bocca. Crebbi, giorno dopo giorno, grazie al latte e al suo calore. Finché un giorno smisi di frignare e presi il biberon da solo, per la gioia di mio padre, che corse da Hao Qiangsheng e Li Yuezhen a dire che ero il bambino più vispo della terra.
Mio padre era in totale simbiosi con me. Sapeva quando avevo fame e quando avevo sete, in questo caso svitava la borraccia, beveva un sorso d’acqua e me la passava pianino in bocca. Si vantava con Li Yuezhen di riconoscere la sottile differenza tra pianto da fame e da sete, ma lei era scettica, perché con la figlia, per farla mangiare e bere, si basava sull’orario.
Nel suo via vai lungo le rotaie, Yang Jinbiao capiva quando era il momento di cambiare il pannolino dall’odore pungente nelle narici. Si accovacciava vicino ai binari e, mentre passava il treno sferragliando, mi adagiava a terra, mi puliva il sedere con l’erba e mi metteva un pannolino nuovo. Poi puliva sommariamente l’altro dagli escrementi aiutandosi con un po’ di terriccio, lo ripiegava e lo infilava nel fagotto. Quando rientrava a casa, dopo il lavoro, mi poggiava sul letto per andare a lavare i pannolini sporchi con il sapone sotto l’acqua corrente.
Abitavamo in una casetta a una ventina di metri dalla ferrovia che all’ingresso aveva pannolini appesi ovunque, come foglie su un albero rigoglioso.
Crebbi tra lo sferragliare dei treni e i sussulti della nostra casa. Quando mi feci un po’ più grande, continuai a crescere sulla schiena di mio padre, perché il marsupio sul suo petto diventò una fascia porta bebè sulle sue spalle, e pian piano cresceva anche lei.
Mio padre, che era sveglio e bravo con le mani, imparò a cucire e a fare la maglia. Al lavoro, i colleghi trattenevano a stento le risate, perché, mentre camminava lungo i binari con me in spalla, sferruzzava maglioncini. Era talmente abile che non aveva nemmeno bisogno di seguire i punti.
Quando cominciai a reggermi sulle gambe, ci tenevamo per mano. Il fine settimana mi portava al parco, lì mi lasciava libero, anche se mi stava dietro perché scappavo da ogni parte. Eravamo in perfetta sintonia. Mentre passeggiavamo sul vialetto, sentivo che allungava il braccio senza guardarlo e io gli davo la manina.
Appena rientravamo nella casetta lungo i binari, mio padre diventava super prudente. Per esempio, se cucinava e io volevo uscire a giocare, mi legava a sé con una corda, un capo alla sua caviglia e l’altro alla mia. Crebbi nella zona di sicurezza delimitata da lui. Non mi allontanavo molto dalla porta di casa, perché ogni volta che scattavo attratto da un treno in arrivo, da dentro strillava: “Yang Fei, torna qui!”.

Mi appare la casetta che stavo cercando e i binari volano via. Un attimo fa non c’era, e ora eccola. Vedo me piccolo, mio padre giovane e una ragazza con la treccia lunga, mentre usciamo tutti assieme. Io ho una faccia familiare, quella di lui ce l’ho stampata nella memoria, ma quella di lei mi sfugge.

La mia infanzia fu allegra come una risata. Non avevo la più pallida idea che stavo distruggendo la vita di mio padre. Nel preciso istante in cui ero caduto tra le rotaie, i suoi orizzonti si erano drasticamente ridimensionati. Non aveva una fidanzata e il matrimonio si allontanò anni luce. I suoi migliori amici, la coppia formata da Hao Qiangsheng e Li Yuezhen, gli presentarono alcune ragazze, non senza aver raccontato la mia storia, che dimostrava quanto Yang Jinbiao fosse buono e affidabile. Poi, al primo incontro, alla scena di lui che cambiava pannolini o faceva la maglia, le ragazze abbozzavano un sorriso e toglievano il disturbo.
La ragazza con la treccia fece la sua comparsa quando avevo quattro anni.

Il settimo giorno di Yu Hua,
Feltrinelli editore. Traduzione di Silvia Pozzi.

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