Nel 1885, lo stato del Congo diventò proprietà privata del Re Leopoldo II del Belgio. Il sovrano, durante i 23 anni del suo dominio africano, non mise mai piede in questa colonia; eppure per sfruttarne le risorse ridusse in schiavitù gli abitanti, causando dagli 8 ai 30 milioni di morti e di fatto dimezzando la popolazione locale. La Force Publique, una milizia istituita dal monarca per instaurare il terrore, torturò e mutilò uomini, donne e bambini in una delle più vergognose e sanguinose pagine del colonialismo europeo. In questo contesto disumano si inserisce lo scandalo che colpì James ‘Sligo’ Jameson, erede della celebre distilleria di whisky irlandese tuttora esistente. Naturalista, cacciatore ed esploratore, Jameson si unì nel 1886 alla Emin Pascià Relief Expedition guidata da Sir Henry Morton Stanley. Nonostante l’obiettivo dichiarato fosse portare aiuto al Pascià Emin, che era sotto assedio, in realtà la spedizione aveva il compito di ampliare gli insediamenti belgi sul territorio congolese. Il 25 febbraio i militari lasciarono Zanzibar alla volta del cuore di quella che veniva chiamata “Africa nera”. Fu quando giunsero nella città di Ribakiba (oggi conosciuta come Lokandu) che successe il fattaccio. Secondo Assad Farran, l’interprete di Jameson, durante un incontro con i capi tribù locali il gentiluomo irlandese aveva espresso la sua curiosità riguardo alla pratica del cannibalismo. “In Inghilterra sentiamo così tanto parlare di cannibali che mangiano le persone, ma dato che sono qui, mi piacerebbe vederlo con i miei occhi” aveva dichiarato. I capi tribù confermarono che in quella zona l’antropofagia era piuttosto diffusa, e suggerirono a Jameson di acquistare uno schiavo e di portarlo in dono a uno dei villaggi vicini. Fu così che Jameson, per il ridicolo prezzo di sei fazzoletti, comprò una bambina di 10 anni. “Raggiunte le capanne dei nativi la bambina, accompagnata dall’uomo che l’aveva procurata, fu presentata ai cannibali. L’uomo disse loro: ‘Questo è un regalo dell’uomo bianco. Vuole vedere come la mangiate’. La bambina fu portata via e legata per le mani a un albero. Circa cinque nativi stavano affilando i coltelli. Poi un uomo si avvicinò e la pugnalò con un coltello per due volte nella pancia. La ragazza non gridò, ma sapeva cosa stava succedendo. Guardava a destra e a sinistra, come se cercasse aiuto. Appena fu pugnalata, cadde morta. I nativi arrivarono e cominciarono a farla a pezzi. Uno tagliava una gamba, un altro un braccio, un altro la testa e i seni, e un altro tolse le viscere dalla pancia. Dopo che si furono spartiti la carne, alcuni la portarono al fiume per lavarla, e altri tornarono dritti a casa loro. Durante tutto il tempo il Sig. Jameson tenne un quaderno e una matita in mano, disegnando degli schizzi della scena.” Quando Assad firmò questa deposizione giurata nel 1890, quattro anni più tardi dei fatti, Jameson era già morto. Poiché la descrizione degli eventi era corroborata anche da un altro testimone, lo scandalo esplose, rimbalzando presto dall’Europa fino all’America e finendo addirittura sulle pagine del New York Times. La vedova Jameson cercò allora di difendere la memoria del marito pubblicando una lettera che, a suo dire, quest’ultimo aveva redatto sul letto di morte. Questo memoriale proponeva una versione diversa dei fatti: il tutto si sarebbe svolto talmente in fretta da non lasciare il tempo a Jameson di fermare il massacro, avvenuto sotto i suoi occhi impotenti. Eppure nella lettera (che molti sospettarono essere un falso, scritto dagli amici di Jameson) venivano ripetuti alcuni dettagli – come i sei fazzoletti usati per acquistare la bambina – che concordavano con il resoconto dell’interprete: se lo scopo era restituire un postumo onore a Jameson, si rivelò dunque un espediente piuttosto debole. A confondere ancora di più le acque, arrivò la smentita di Assad, che ritrattò le accuse affermando di essere stato frainteso. Ma tutti compresero che con ogni probabilità era stato costretto dagli ufficiali belgi a ritirare la sua denuncia. Nonostante le zone d’ombra che ancora rimangono, ci sono pochi dubbi sul fatto che l’incidente sia avvenuto davvero. Un altro testimone ricordava che Jameson all’epoca non aveva problemi a parlare tranquillamente dell’episodio, e si era accorto della gravità delle sue azioni solo molto più tardi. “La vita è a buon mercato, in Africa Centrale; il Sig. Jameson si era dimenticato di quanto diversa sarebbe sembrata questa cosa terribile, in patria.” Nel quadro devastante del Congo di quegli anni, mentre si perpetrava un eccidio metodico, i nativi venivano considerati alla stregua di bestie da soma. Agli occhi dei coloni, dunque, sei fazzoletti valevano sicuramente uno spettacolo cruento e memorabile.