John prese un taxi alla stazione, come suo zio gli aveva detto di fare se non li avesse trovati ad aspettarlo. C’erano sì e no tre chilometri fino alla Hanshaw Chickens, Inc., come zio Ernie Hanshaw adesso chiamava la fattoria. John conosceva bene la bianca costruzione a due piani, ma il lungo pollaio grigio gli era nuovo. Era enorme, e ricopriva l’intera area dove prima c’erano la stalla e il recinto dei maiali.
“Ha voglia di esprimere desideri qui, con tutti questi polli!” disse il taxista scherzosamente mentre John pagava.
John sorrise. “Sì, ci stavo giusto pensando... ma non se ne vede uno!”
Si avviò con la valigia in direzione della casa. “C’è nessuno?” chiamò, immaginando che Helen a quell’ora era probabilmente in cucina a preparare da mangiare.
Poi vide il gatto appiattito per terra. No, veramente era un gattino. Vero o di carta? John posò la valigia e si chinò a guardarlo più da vicino. Vero. Era sdraiato su un fianco, impastato nell’umida terra rossiccia, dentro l’ampio solco lasciato da una ruota. La testa era stata schiacciata e lì c’era del sangue, ma non sul resto del corpo che si era gonfiato per la pressione, tanto che la coda sembrava ora assurdamente corta. Era un gattino bianco con delle macchie rosse e nere.
Dal pollaio John sentì il ronzio dei macchinari. Appoggiò la valigia nel portico davanti all’ingresso e, non sentendo alcun rumore dalla cucina, si affrettò verso la nuova costruzione. Trovò la grande porta chiusa, e girò sul retro, sempre di corsa, perché l’edificio non finiva mai. Oltre al ronzio della macchina, John sentì un gran baccano, una confusione di strida e pigolii che provenivano dall’interno.
“Ernie?” gridò John. Poi vide Helen. “Salve, Helen!”
“John! Benarrivato! Hai preso un taxi? Non abbiamo sentito il rumore dell’auto!” Lo baciò sulla guancia. “Sei cresciuto ancora sei o sette centimetri!”
Suo zio scese da una scala e gli strinse la mano. “Come va, ragazzo?”
“Bene, Ernie. E qui cosa succede?” John guardò in alto, verso i nastri trasportatori che scomparivano da qualche parte dentro il pollaio. Un contenitore rettangolare di metallo, grande quasi come un vagone merci, giaceva per terra.
Ernie attirò John più vicino e gli spiegò, urlando, che era appena stato consegnato il grano, una miscela speciale, e che adesso si trattava di stivarlo in fabbrica, come lui chiamava il pollaio. Nel pomeriggio un uomo sarebbe venuto a ritirare il contenitore.
“Non si dovrebbero accendere le luci adesso, secondo il programma, ma faremo un’eccezione perché tu ti possa fare un’idea. Guarda!” Ernie premette un pulsante all’interno della porta del pollaio e la semioscurità si fece luce abbagliante, come splendesse il sole.
Gli schiamazzi e le strilla dei polli crebbero d’intensità, come una sirena, come mille sirene, e John istintivamente si coprì le orecchie. Le labbra di Ernie si muovevano, ma John non riusciva a sentirlo. Si girò verso Helen. Era ferma un po’ più indietro, agitò una mano, scosse la testa e sorrise come a dire che non sopportava il fracasso. Ernie proseguì il giro del pollaio con John, ma aveva rinunciato a parlare e si limitava a indicare.
I polli erano piuttosto piccoli e per lo più bianchi, e muovevano incessantemente le zampe. Questo perché, come John osservò, i ripiani su cui poggiavano pendevano leggermente in avanti, spingendoli verso le mangiatoie meccaniche che si muovevano lentamente davanti a loro. Ma non tutti mangiavano. Alcuni cercavano di beccare i polli vicini. Ogni pollo aveva la sua piccola stia di metallo. Ci saranno state quaranta file di polli a terra e otto o dieci file arrivavano fino al soffitto. Tra le doppie file di gabbie sistemate l’una contro l’altra, c’erano dei corridoi larghi a sufficienza perché ci potesse passare un uomo a pulire il pavimento, immaginava John; e proprio mentre lo pensava, Ernie girò una ruota e l’acqua incominciò a scorrere per terra. Il pavimento pendeva leggermente verso numerosi canali di scarico.
“Tutto automatico! Niente male, eh?”
John riuscì a distinguere le parole dal movimento delle labbra di Ernie e annuì con aria ammirata. “Fantastico!” Ma ne aveva abbastanza di quel rumore.
Ernie chiuse l’acqua.
John notò che i polli si erano consumati i becchi che erano come mozziconi spuntati, e il loro bianco petto sanguinava là dove premeva contro la sbarra orizzontale. Cos’altro potevano fare se non mangiare? John aveva letto qualcosa circa l’allevamento di polli in batteria. E, proprio come aveva letto, anche i polli di Ernie non potevano girarsi nelle gabbie. E tutta quella confusione nel pollaio era causata in gran parte dai polli che cercavano di svolazzare. Ernie spense le luci. Le porte si chiusero dietro di loro, ancora automaticamente, a quanto pareva.
“La meccanizzazione è stata la mia salvezza,” disse Ernie, sempre parlando ad alta voce. “Guadagno dei bei soldi adesso. E pensa un po’: un solo uomo – io – che fa andare avanti la baracca!”
John sogghignò: “Vuoi dire che non avresti niente da farmi fare?”
“Oh, ce ne sono di cose. Vedrai. Che ne diresti di mangiare un boccone prima? Di’ a Helen che sarò di ritorno tra una quindicina di minuti.”
John raggiunse Helen. “Assolutamente fantastico!”
“Sì, è la passione di Ernie.”
Si avviarono verso casa; Helen guardava dove metteva i piedi, perché il terreno era fangoso in alcuni punti. Indossava un vecchio paio di scarpe da tennis, dei pantaloni di velluto a coste neri, e un maglione ruggine. John di proposito si tenne tra lei e il punto dove giaceva il gattino, non volendo abbordare l’argomento.
Salì con la valigia nella camera d’angolo quadrata e piena di sole dove aveva sempre dormito da quando Helen ed Ernie avevano comperato la fattoria, e lui era soltanto un bambino di dieci anni. Si infilò un paio di jeans e raggiunse Helen in cucina.
“Gradisci un Old-fashioned? Dobbiamo festeggiare il tuo arrivo,” disse Helen. Stava preparando due drink sul tavolo di legno.
“Perfetto. E Susan dov’è?” Susan era la figlia di otto anni.
“È a... Sì, una specie di scuola estiva. La riaccompagnano a casa verso le quattro e mezzo. È un modo come un altro di tenerla occupata durante le vacanze. Fanno degli orribili portacenere di terracotta e dei borsellini con le frange, sai. Ma devi far finta di trovarli molto belli.”
John si mise a ridere. Fissò la zia acquisita, pensando che era ancora molto attraente a... quanti anni poteva avere? Trentuno, pensò. Era alta un metro e sessantatré, sottile, con i capelli ricci biondo rame e gli occhi che ora tiravano al verde, ora all’azzurro. E aveva una bellissima voce. “Oh, grazie.” John prese il bicchiere. Cerano dei pezzetti d’ananas dentro, con in cima una ciliegina.
“Sono proprio contenta di vederti, John. Come vanno gli studi? E i tuoi?”
Due argomenti che andavano bene. John si sarebbe laureato all’Ohio State l’anno seguente, a vent’anni, poi aveva intenzione di seguire un corso di perfezionamento in scienze politiche. Era figlio unico e i suoi genitori vivevano a Dayton, a duecento chilometri.
Quindi John parlò del gattino. “Spero che non sia tuo,” disse e subito si rese conto che invece doveva esserlo, perché Helen posò il bicchiere e si alzò. E a chi altro poteva appartenere, dal momento che non c’erano case lì attorno?
“Santo cielo! Susan sarà...” Helen si precipitò fuori dalla porta sul retro.
John le corse dietro, puntando verso la gattina che Helen aveva visto di lontano.
“Deve essere stato quel grosso camion questa mattina,” esclamò Helen “Il conducente sedeva così in alto che di certo non poteva vedere...”
“Faccio io,” disse John, guardandosi attorno in cerca di una vanga o di un badile. Trovò una pala, ritornò e sollevò delicatamente il corpo schiacciato, come se fosse ancora vivo. Lo tenne con tutte e due le mani. “Forse dovremmo seppellirlo.”
“Naturalmente. Susan non deve vederlo, ma troverò il modo di dirglielo. C’è un forcone nel retro della casa.”
John scavò dove aveva indicato Helen, in un punto vicino a un melo, dietro casa. Riempì la fossa e la ricoprì con dei ciuffi d’erba perché non desse nell’occhio.
“Sapessi le volte che l’ho chiusa in casa quando arrivavano quei maledetti camion!” disse Helen. “Sai, era una gattina sì e no di quattro mesi, non aveva paura di niente, trotterellava incontro alle automobili come se fossero lì per giocare.” Rise nervosamente. “E stamattina il camion è arrivato alle undici, mentre tenevo d’occhio una torta nel forno, quasi pronta da tirar fuori.”
John non sapeva cosa dire. “Forse, appena puoi, dovresti prendere un altro gatto per Susan.”
“Che cosa state facendo voi due?” Ernie era entrato dal retro della cucina e si dirigeva verso di loro.
“Abbiamo appena seppellito Beansy,” disse Helen. “È finita sotto al camion questa mattina.”
“Oh.” Il sorriso di Ernie scomparve. “Mi spiace. Mi spiace davvero, Helen.”
Ma a pranzo Ernie fu abbastanza allegro, parlò delle vitamine e degli antibiotici che metteva nel mangime dei polli, e della sua produzione pari a un uovo e un quarto al giorno per gallina. Con tutto che si era di luglio, Ernie allungava il ‘giorno’ dei polli con l’illuminazione artificiale.
“Tutti i volatili sono fatti per la primavera. Depongono più uova quando pensano che stia arrivando primavera. I miei adesso rendono al massimo. In ottobre avranno quasi un anno e li venderò per prendere una nuova infornata.”
John ascoltava attentamente. Si sarebbe fermato un mese. Voleva essere d’aiuto. “Ma mangiano, sì? Ho visto che molti hanno il becco consumato.”
Ernie si mise a ridere. “Gli è stato tolto. Si sarebbero beccati l’un l’altro attraverso la rete, altrimenti. Due polli della prima partita sono scappati e per poco non si ammazzavano. Be’, uno veramente ci è riuscito. Credimi, adesso preferisco togliergli il becco, secondo le istruzioni.”
“E uno dei due ha finito per mangiarsi l’altro,” precisò Helen. “Cannibalismo.” Rise a disagio. “Mai sentito parlare di cannibalismo tra i polli, John?”
“No.”
“I nostri polli sono pazzi.”
“Pazzi.” John sorrise. Forse Helen aveva ragione. Almeno a giudicare dai versi un po’ folli che facevano.
“A Helen non piace molto l’allevamento in batteria,” disse Ernie con l’aria di volerla scusare. “Pensa sempre ai vecchi tempi. Ma non ce la passavamo così bene allora.”
Quel pomeriggio John aiutò lo zio a riportare il nastro trasportatore nel pollaio. Incominciò a imparare l’uso delle leve e degli interruttori che facevano funzionare l’impianto. I nastri portavano via le uova e le depositavano delicatamente dentro i contenitori di plastica. Erano circa le cinque del pomeriggio quando finalmente John poté andarsene. Voleva salutare la cugina Susan, una ragazzina vivace, con i capelli di sua madre.
Come fu nel portico davanti alla casa, sentì il pianto di un bambino, e si ricordò della gattina. Decise di affrontare Susan in ogni caso, e di parlarle.
Susan e la madre erano nel soggiorno – una stanza che dava sul davanti, con tende a fiori e mobili di ciliegio. C’erano delle innovazioni da quando John l’aveva vista l’ultima volta, come per esempio un televisore più grande. Helen era in ginocchio accanto al divano dove era sdraiata Susan, la faccia sprofondata in un braccio.
“Ciao, Susan,” disse John. “Mi spiace, sai, per la tua gattina.”
Susan sollevò un faccino tondo e in lacrime. Una bolla fiorì sulle sue labbra e si ruppe. “Beansy...”
John l’abbracciò d’impulso. “Troveremo un altro gattino. Te lo prometto. Magari domani. Vero?” Guardò in direzione di Helen.
Helen annuì sorridendo: “Ma certo.”
Il pomeriggio seguente, subito dopo aver lavato i piatti, Helen e John partirono con la giardinetta alla volta di una fattoria, a una decina di chilometri di distanza, di proprietà di certi Ferguson. I Ferguson avevano due gatte che facevano spesso dei gattini, spiegò Helen. E questa volta ebbero fortuna. Una delle gatte aveva una nidiata di cinque – uno nero, uno bianco e tre macchiati – e l’altra era incinta.
“Bianco?” propose John. I Ferguson avevano dato loro la possibilità di scegliere.
“Macchiato,” disse Helen. “Bianco va sempre bene e nero è... può portare sfortuna.”
Scelsero una femmina bianca e nera con i piedi bianchi.
“Sembra il gatto con gli stivali,” disse Helen ridendo.
I Ferguson erano gente semplice, avanti con gli anni, e molto ospitali. La signora Ferguson insistette perché assaggiassero una torta al cocco appena sfornata e un vino piuttosto forte, fatto in casa. La gattina scorrazzava per la cucina, giocando con dei fiocchi di polvere che aveva tirato fuori da sotto una grossa credenza.
“Questo non è un gattino allevato in batteria!” osservò Frank Ferguson e bevve una sorsata.
“Possiamo vedere i tuoi polli, Frank?” chiese Helen. E subito aggiunse dando un colpetto su un ginocchio di John: “Frank ha dei polli che sono una meraviglia, un centinaio circa!”
“Che cosa ci trovi di bello?” chiese Frank alzandosi con una gamba indolenzita. Aprì la zanzariera della porta sul retro. “Sai dove sono, Helen.”
John si sentiva piacevolmente stordito per effetto del vino mentre camminava con Helen verso il recinto dei polli. C’erano dei Rhode Island Reds, dei grossi Leghorn bianchi, dei galli che drizzavano e agitavano le creste, dei pollastrelli screziati e una quantità di pulcini alti più o meno quindici centimetri. Il suolo era ricoperto da uno strato di scorze di anguria piene di solchi da unghiate, recipienti di latta con granaglie e polenta, e sterco di pollo in quantità. Un rottame di automobile senza ruote sembrava essere il posto preferito per deporre le uova: tre galline erano appollaiate sullo schienale del sedile anteriore con gli occhi socchiusi, pronte a scodellare le uova, che di sicuro si sarebbero rotte cadendo a terra, alle loro spalle.
“Che fantastica confusione!” gridò John ridendo.
Helen era incollata alla rete metallica e guardava affascinata. “Proprio come i polli di quando ero bambina. Veramente anche Ernie e io li avevamo fino a quando...” Rivolse un sorriso a John. “Sì, l’anno scorso. Entriamo!”
John trovò il cancello, una specie di cosa ondeggiante, fatta di filo metallico che veniva chiusa da una sbarra di legno. Entrarono e lo richiusero alle loro spalle.
Alcune galline indietreggiarono e li guardarono con curiosità, emettendo scettici versi gutturali.
“Sono così adorabilmente stupide!” Helen guardò una gallina sollevarsi in volo e appollaiarsi su un pesco. “Possono vedere il sole! Possono volare!”
“E prendere vermi, e mangiare anguria!” disse John.
“Quand’ero piccola, andavo a caccia di vermi da dare loro, nella fattoria di mia nonna. Con una zappa. E a volte camminavo sui loro escrementi – di proposito, sai –, e mi si infilavano tra le dita. Mi piaceva. Prima di entrare in casa la nonna mi faceva sempre lavare i piedi sotto la pompa per innaffiare il giardino.” Scoppiò a ridere. Un pollo evitò la sua mano tesa con un “Urr-rrk!” “I polli della nonna erano così addomesticati che si lasciavano toccare. Tutt’ossa, e con le penne tiepide di sole. A volte mi vien voglia di aprire tutte le gabbie del pollaio, spalancare le porte e mettere i nostri in libertà solo per il gusto di vederli passeggiare sull’erba per pochi minuti.”
“Di’, Helen, ti andrebbe di comperare uno di questi polli da portare a casa? Così, per divertimento? Un paio, magari?”
“No.”
“Quanto è costato il gatto? Hai pagato qualcosa?”
“No, niente.”
Susan prese in braccio la gattina, e John capì che la tragedia di Beansy sarebbe stata presto dimenticata. Con disappunto di John, il buonumore di Helen a cena svanì. Forse perché Ernie non faceva che parlare di profitti e perdite, non proprio perdite, spese. Ernie era ossessionato; John se ne accorse. Ecco perché Helen era scocciata. Ernie lavorava sodo adesso, nonostante quello che diceva sulle macchine che facevano tutto. C’erano delle pieghe agli angoli della sua bocca e non certo perché ridesse troppo. Stava mettendo su pancia. Helen aveva detto a John che l’anno prima Ernie aveva licenziato il loro bracciante, Sam, che lavorava per loro da sette anni.
“Di’ un po’,” domandò Ernie, richiamando l’attenzione di John. “Che cosa ne pensi di questa idea? Metter su un allevamento di polli in batteria quando hai finito la scuola e pagare un uomo che lo mandi avanti. Potresti trovarti un altro lavoro a Chicago o a Washington o dove vuoi, e avresti sempre un reddito sicuro finché campi.”
John restò in silenzio. Non riusciva a immaginarsi proprietario di un allevamento di polli in batteria.
“Qualsiasi banca sarebbe disposta a finanziarti, se Clive ci mettesse una parola.”
Clive era il padre di John.
Helen guardava nel piatto, probabilmente pensando ad altro.
“Non è proprio il mio genere, credo,” rispose finalmente John. “So che rende, però.”
Dopo cena Ernie andò in soggiorno a far quattro conti, come diceva lui. Doveva fare i conti quasi ogni sera. John aiutò Helen a lavare i piatti. Lei mise sul giradischi una sinfonia di Mozart. La musica era bella ma John avrebbe voluto parlare con Helen. D’altro canto che cosa poteva dirle esattamente? Capisco perché sei seccata. Preferiresti preparare il pastone per i maiali e buttare il grano a dei veri polli, come facevi prima. John provava il desiderio di stringere Helen tra le braccia, mentre lei era china sul lavandino, di girarle la faccia verso di sé e di baciarla. Cosa avrebbe pensato Helen se lo avesse fatto?
Quella sera, a letto, John lesse coscienziosamente tutti gli opuscoli sull’allevamento di polli in batteria che Ernie gli aveva dato.
I polli da allevamento sono piccoli, e perciò non mangiano molto e raramente superano il chilo e mezzo... I polli giovani, condizionati dalla luce del ciclo, sono portati a credere che la giornata sia di sei ore soltanto. L’obiettivo dell’allevatore è quello di prolungare la giornata di sei ore, lasciando le luci accese per periodi sempre più lunghi, ogni settimana. Le galline vengono mantenute per i dieci mesi della loro vita in una condizione di primavera artificiale... Non ci sarà così un vero e proprio calo nella produzione delle uova, per quanto verso la fine le galline ne depositeranno un po’ meno... (Ma guarda, considerò John, “un po’ meno” non equivaleva dunque a “un calo”?) A dieci mesi la gallina viene venduta a circa 60 cents al chilo, a seconda del mercato...
E sotto:
Richard K. Schultz di Poon’s Cross, Pennsylvania, scrive: “Sono più che soddisfatto, e così pure mia moglie, della trasformazione della mia fattoria in un moderno allevamento di polli in batteria, realizzato con attrezzature Muskeego-Ryan-Electric. Il profitto in un anno e mezzo è quadruplicato e le prospettive per il futuro sono ancor più promettenti...”
Scrive Henry Vliess di Farnham, Kentucky: “La mia vecchia fattoria mi stava portando alla rovina. Avevo polli, maiali, mucche... il solito. Gli amici mi prendevano in giro, vedendo che mi spezzavo la schiena senza cavarci un soldo. Poi un bel giorno...”
John fece un sogno. Volava come Superman nel pollaio di Ernie, che sfolgorava di luci. I polli in gabbia guardavano verso di lui, con gli occhi che mandavano lampi argentei, e rimanevano accecati. Era fantastico il rumore che facevano. Volevano scappare, ma non ci vedevano e l’intero pollaio sembrava sollevarsi per i loro tentativi di prendere il volo. John volava di qua e di là freneticamente, cercando la leva per aprire le gabbie, le porte, qualsiasi cosa, ma non la trovava. Poi si svegliò, sorpreso di trovarsi nel suo letto, appoggiato a un gomito. Aveva la fronte e il petto madidi di sudore. Dalla finestra entrava il chiarore della luna. Nel silenzio della notte, poteva sentire l’incessante, acuto strepito delle centinaia di polli, per quanto Ernie sostenesse che il pollaio era perfettamente insonorizzato. Forse per i polli adesso era ‘giorno’. Ernie diceva che avevano ancora tre mesi di vita.
John acquistò dimestichezza con i macchinari dell’allevamento e con gli orologi temporizzatori ma, dopo quel sogno, non riuscì più a guardare i polli con gli stessi occhi. Non li guardava affatto se poteva farne a meno. Una volta Ernie gli mostrò un pollo morto e John lo portò via. Il petto, sanguinante per i colpi contro la sbarra della gabbia, era così gonfio da far pensare che il pollo si fosse beccato fino a darsi la morte.
Susan aveva chiamato la sua gattina Bibsy – pettorina – , per via di una macchia bianca sul petto.
Un sabato mattina Helen e John si recarono in città. Era una giornata di tempo incerto, un momento pioveva e subito dopo usciva il sole. Camminavano tenendosi stretti, sotto l’ombrello, quando arrivavano i rovesci di pioggia. Comperarono carne, patate, detersivo, un barattolo di vernice bianca per uno scaffale della cucina, ed Helen si comperò una camicetta a righe bianche e rosa. In un negozio di animali, John acquistò un cesto con un cuscino da regalare a Susan per Bibsy.
Quando tornarono, trovarono una lunga macchina grigio scuro davanti a casa.
“È la macchina del dottore!” disse Helen.
“Viene a farvi visita ogni tanto?” chiese John e subito capì che era una domanda stupida, perché poteva essere successo qualcosa a Ernie. Avrebbero dovuto consegnare una partita di granaglie in mattinata ed Ernie si arrampicava sempre in cima a sorvegliare che tutto funzionasse a dovere.
C’era un’altra macchina, verde scuro, dietro il pollaio, che Helen non conosceva. Entrarono in casa.
Era Susan. Era distesa sul pavimento del soggiorno sotto un plaid, soltanto un piede con sandalo e calzino giallo sbucava da sotto la frangia della coperta. C’era il dottor Geller e un uomo che Helen non conosceva. Ernie era accanto alla figlia, impietrito e sconvolto.
Il dottor Geller si avvicinò a Helen e disse: “Sono desolato, Helen, Susan era già morta quando è arrivata l’ambulanza. Ho chiamato il coroner.”
“Che cosa è successo?” Helen voleva toccare Susan ma istintivamente John la fermò.
“Tesoro, me ne sono accorto troppo tardi,” disse Ernie. “Stava rincorrendo la gattina sotto quel dannato container proprio mentre si stava abbassando.”
“Sì, l’ha colpita alla testa,” disse un uomo robusto con una tuta da lavoro marrone, uno degli uomini che avevano fatto la consegna. “Stava sbucando fuori da sotto, ha detto Ernie. Mio Dio, mi dispiace signora Hanshaw!”
Helen rimase senza fiato, poi si coprì la faccia.
“Hai bisogno di un sedativo, Helen,” disse il dottor Geller.
Il dottore le fece un’iniezione nel braccio. Helen non disse niente. Aveva la bocca leggermente aperta e gli occhi fissi nel vuoto. Arrivò un’altra macchina e portò via il corpo su una barella. Poi se ne andò anche il coroner.
Con mano tremante, Ernie versò del whisky.
Bibsy saltava per la stanza e annusava la macchia rossa sul tappeto. John andò in cucina a prendere una spugna. Era meglio cercare di levarla mentre gli altri erano in cucina. Tornò in cucina, riempì un pentolino d’acqua, e strofinò di nuovo la grande macchia rossa. La testa gli girava e aveva difficoltà a restare in equilibrio. In cucina, scolò il suo bicchiere di whisky d’un fiato e subito si sentì avvampare le orecchie.
“Ernie, credo che sia meglio che me ne vada,” disse l’uomo in tuta con tono solenne. “Sai dove trovarmi.”
Helen salì in camera da letto, che divideva con Ernie, e non si fece vedere per cena. Dalla sua stanza John sentiva scricchiolare il pavimento di legno, e sapeva che Helen stava camminando su e giù per la camera. Avrebbe voluto entrare e parlarle, ma aveva paura di non riuscire a dire le cose giuste. Dovrebbe esserci Ernie al suo fianco, pensò John.
John ed Ernie si cucinarono tristemente delle uova strapazzate, e John andò a chiedere a Helen se intendeva scendere o preferiva che le portasse su qualcosa. Bussò alla porta.
“Avanti,” disse Helen.
Gli piaceva la sua voce, e notò con sorpresa che non era cambiata da quando era morta la bambina. Era distesa sul letto matrimoniale, ancora con gli stessi vestiti, e fumava una sigaretta.
“Non mi va di mangiare, grazie, ma berrei volentieri un whisky.”
John si precipitò giù, desideroso di procurarle qualcosa che lei potesse gradire. Portò del ghiaccio, un bicchiere e la bottiglia su un vassoio. “Hai voglia solo di dormire?” chiese John.
“Sì.”
Lei non aveva acceso la luce. John la baciò su una guancia, e per un istante lei gli passò un braccio attorno al collo, e gli restituì il bacio, sempre sulla guancia. Poi uscì dalla stanza.
Dabbasso le uova erano secche, e John faceva fatica a mandarle giù malgrado si aiutasse con qualche sorso di latte.
“Mio Dio che giornata,” disse Ernie. “Mio Dio!” Era evidente che stava cercando di dire qualcos’altro, guardava John in un disperato tentativo di essere gentile, amichevole.
E John, come Helen, si trovò a guardare nel piatto, senza parole. Alla fine, non sopportando più quel silenzio, John si alzò con il piatto e batté sulle spalle di Ernie con fare imbarazzato. “Mi spiace, Ernie.”
Poi aprì un’altra bottiglia di whisky, una delle due rimaste nell’armadietto.
“Se solo avessi saputo che poteva succedere una cosa simile, non avrei mai iniziato questo maledetto allevamento. Lo sai. Avevo intenzione di guadagnare qualcosa per la mia famiglia, non di trascinarmi disperatamente fino alla fine dei miei giorni.”
John vide che la gattina aveva trovato il cesto nuovo e ora vi era andata a dormire, sul pavimento del soggiorno. “Ernie, probabilmente hai voglia di parlare con Helen. Sarò in piedi alla solita ora per darti una mano.” Il che voleva dire alle sette del mattino.
“Okay, non capisco più niente stasera. Perdonami, John.”
John rimase sdraiato nel letto per quasi un’ora senza riuscire ad addormentarsi. Attraverso la parete sentì Ernie entrare piano piano in camera da letto, ma non sentì nessuna voce, neppure un mormorio. Ernie non assomigliava a Clive, pensò John. Suo padre sarebbe scoppiato a piangere, avrebbe magari bestemmiato. Poi non ci sarebbe più tornato sopra, se non per consolare la moglie.
Un rumore roco, che andava e veniva, svegliò John. I polli naturalmente. Che diavolo stava succedendo? Non li aveva mai sentiti strillare così forte. Guardò fuori della finestra. Ai primi chiarori dell’alba poté vedere che la porta del pollaio era aperta. Poi si accesero le luci che illuminarono il prato. John si infilò le scarpe da tennis e senza neppure allacciarle si precipitò nell’ingresso.
“Ernie! Helen!” gridò verso la loro porta chiusa.
Corse fuori. Una bianca marea di polli si riversava fuori della porta del pollaio. Che cosa poteva essere successo? “Indietro!” urlò ai polli agitando le braccia.
Le gallinelle dovevano essere cieche, o forse non riuscivano a sentirlo con tutto quello schiamazzo. Continuavano a uscire, alcune svolazzando al disopra delle altre e rituffandosi di nuovo in quel bianco mare.
John portò le mani alla bocca. “Ernie! La porta!” Gridava rivolto verso l’interno del pollaio, perché Ernie doveva essere entrato.
John si tuffò in mezzo alle galline e fece un altro tentativo di respingerle. Era senza speranza. Disabituati a camminare, i polli barcollavano come ubriachi, si accalcavano l’uno contro l’altro, incespicavano in avanti, si trascinavano indietro sulle code, ma continuavano a uscir fuori, alcuni trasportati sulla schiena degli altri che camminavano. Beccavano le caviglie di John. John scalciò per allontanarli e si diresse di nuovo verso la porta del pollaio, ma le beccate alle caviglie e ai polpacci gli facevano male, e dovette fermarsi. Alcuni polli cercarono di alzarsi in volo per attaccarlo, ma non avevano forza nelle ali. Sono pazzi, ricordò John. E all’improvviso ebbe paura, raggiunse il punto più sgombro, di fianco al pollaio, e poi si spinse fino alla porta sul retro. Sapeva come aprirla. Aveva una serratura a combinazione.
Helen, in accappatoio, era ferma all’angolo del pollaio nel punto dove John l’aveva vista il giorno in cui era arrivato. La porta sul retro era chiusa.
“Che cosa succede?” gridò John.
“Ho aperto le gabbie,” disse Helen.
“Le hai aperte? Perché? Dov’è Ernie?”
“È là dentro.” Helen era stranamente calma, come se parlasse nel sonno.
“E cosa sta facendo? Perché non chiude il pollaio?” John aveva afferrato Helen per le spalle e cercava di scuoterla. La lasciò e corse alla porta sul retro.
“L’ho richiusa,” disse Helen.
John formulò la combinazione più in fretta che poté, ma non riusciva a vedere.
“Non aprire! Vuoi che vengano da questa parte?” Helen era in sé adesso, allontanava le mani di John dalla serratura.
Poi, per John tutto fu chiaro. Lì dentro Ernie stava per essere ucciso, lo stavano uccidendo a beccate. Era quel che voleva Helen. Anche se Ernie avesse urlato, non avrebbero potuto sentirlo.
Sul viso di Helen comparve un sorriso. “Sì, è lì dentro. Credo che lo finiranno.”
John non distinse le parole a causa del baccano che facevano i polli, ma gliele lesse sulle labbra. Aveva il cuore che batteva forte.
Poi Helen crollò e John la afferrò. John sapeva che era troppo tardi per salvare Ernie. Sapeva anche che Ernie ormai non urlava più.
Helen si rimise in piedi. “Vieni con me. Andiamo a dare un’occhiata,” disse, e trascinò John debolmente, ma con determinazione, lungo il fianco del pollaio, verso la porta principale.
Camminavano tanto piano che sembrò loro di impiegarci quattro volte più del tempo necessario. Lui afferrò il braccio di Helen. “Ernie è lì dentro?” chiese, credendo di sognare, o piuttosto di essere sul punto di svenire.
“Lì dentro,” Helen gli sorrise di nuovo, con gli occhi socchiusi. “Sono scesa giù e ho aperto la porta di dietro, poi sono risalita e ho svegliato Ernie. Ho detto: ‘Ernie, c’è qualcosa che non va nel pollaio, faresti meglio a scendere.’ Lui è sceso e si è diretto alla porta sul retro, e io ho aperto le gabbie con una leva. E poi... ho azionato la leva che apre la porta anteriore. Lui era... in mezzo al pollaio in quel momento, perché avevo appiccato il fuoco sul pavimento.”
“Fuoco?” Poi John notò una pallida spirale di fumo che saliva dalla porta davanti.
“Non c’era molto da bruciare... solo il grano,” disse Helen. “E da mangiare ne hanno abbastanza là fuori, non credi?” Si mise a ridere.
John la trascinò più in fretta verso la parte anteriore del pollaio. Non sembrava che ci fosse molto fumo. Adesso tutto il prato era coperto di polli, che si sparpagliavano attraverso il bianco steccato sulla strada, beccando, schiamazzando, strillando: un piccolo esercito sbandato. Era come se la terra fosse ricoperta di neve.
“Vai verso casa!” disse John, prendendo a calci alcuni polli che stavano attaccando le caviglie di Helen.
Salirono in camera di John. Helen si inginocchiò davanti alla finestra, a guardare. Alla loro sinistra stava sorgendo il sole, e adesso toccava il tetto rossastro del pollaio di metallo. Una spirale di grigio fumo si levava da un’architrave della porta. I polli indugiavano, si fermavano stupidamente sulla soglia fin quando non venivano sospinti avanti dagli altri che premevano. I polli sembravano abbagliati non tanto dalla luce del sole – quella all’interno del pollaio era più forte – quanto dal grande spazio intorno e al di sopra di loro. John non aveva mai visto prima dei polli allungare il collo solo per il gusto di guardare in alto, verso il cielo. Si inginocchiò di fianco a Helen e le passò un braccio attorno alla vita.
“Stanno andando tutti... se ne vanno,” disse John. Si sentiva stranamente paralizzato.
“Lasciali andare.”
Il fuoco non si sarebbe propagato alla casa. Non c’era vento e il pollaio era distante più di trenta metri. John pensò di essere impazzito, come Helen, o i polli, e si stupì di essere ancora abbastanza lucido da preoccuparsi del fuoco.
“È finita,” disse Helen quando gli ultimi polli uscirono ondeggiando fuori dal pollaio. Attirò John a sé prendendolo per la giacca del pigiama.
John la baciò, prima delicatamente, poi con più decisione, sulle labbra. Una cosa strana e più intensa di qualsiasi altro bacio dato a una ragazza, eppure, curiosamente, esauriva il desiderio. Un bacio che voleva essere soltanto un’affermazione che erano entrambi vivi. Rimasero in ginocchio, l’uno di fronte all’altra, tenendosi stretti. Le grida dei polli non erano più sinistre, ma piuttosto eccitate e stupite. Era come sentir suonare un’orchestra, alcuni elementi tacevano, altri riprendevano gli strumenti, in un accordo senza fine e senza tempo. John non aveva idea di quanto rimasero inginocchiati così, ma alla fine sentì male alle ginocchia e si alzò, sollevando anche Helen. Guardò fuori della finestra e disse:
“Devono essere usciti tutti. E il fuoco si è ridotto. Dovremmo...” Ma non si sentiva in obbligo di andare a cercare Ernie, non gli pesava sulla coscienza. Era come se avesse sognato quella notte, e quell’alba, e il bacio di Helen, proprio come aveva sognato di volare come Superman nel pollaio. Erano le mani di Helen quelle che stava stringendo nelle sue?
Lei si lasciò cadere di nuovo a terra, voleva semplicemente sedersi sul tappeto, così lui la lasciò e si infilò i blue-jeans sui pantaloni del pigiama. Scese dabbasso ed entrò nel pollaio con circospezione, dalla porta principale. All’interno non ci si vedeva per il fumo, ma quando si abbassò riuscì a distinguere una cinquantina di polli che beccavano quello che lui sapeva essere il corpo di Ernie, sul pavimento. Corpi di polli sopraffatti dal fumo giacevano a terra, come piccoli sbuffi di fumo loro stessi, e alcuni polli vivi li stavano beccando, e si avventavano in cerca degli occhi. John si diresse verso Ernie. Credeva di essersi fatto forza, ma non abbastanza per quel che vide: una colonna di sangue e ossa rovinata a terra, con alcuni brandelli di pigiama ancora attaccati. John corse fuori di nuovo, in fretta, perché aveva dovuto respirare là dentro e il fumo per poco non lo soffocava.
Nella sua camera Helen stava cantando a bocca chiusa e tamburellava sul davanzale, osservando i polli rimasti sul prato. Le galline cercavano di razzolare nell’erba e barcollavano cadendo di fianco, ma per lo più cadendo all’indietro, perché erano abituate a trattenersi per non scivolare in avanti.
“Guarda!” disse Helen, ridendo fino a farsi venire le lacrime agli occhi. “Non sanno che cos’è l’erba. Ma la trovano di loro gusto!”
John si schiarì la gola e disse: “Che cosa dirai? Che cosa diremo?”
“Oh, diremo...” Helen non sembrava preoccuparsi minimamente della cosa. “Be’, che Ernie ha sentito qualcosa ed è sceso giù e... che non era del tutto sobrio, ecco. E... forse ha toccato un paio di leve sbagliate. Non credi?”
tratto da Delitti Bestiali, Milano, Bompiani, 2007,
traduzione di Doretta Gelmini