Da tempo immemore gli animali sono sfruttati e brutalizzati dagli esseri umani e a volte accade che si ribellino, arrivando a uccidere i propri aguzzini. Ispirandosi al libro di Patricia Highsmith, i versi qui selezionati mettono in scena la violenza con un linguaggio crudo e asciutto e adottano il punto di vista degli animali, dotati di pensiero non meno degli umani. In Circo, Sofia Nadalin sceglie di evitare le scene più cruente per soffermarsi sull’ingresso trionfale della protagonista del primo racconto del libro, l’elefante Ballerina. I versi vividi e immaginifici di Alessandro Silva entrano nella mente di una cagna che, dopo aver ucciso il padrone azzannandolo alla gola, è pronta a morire soddisfatta. Una cagna è anche protagonista dei versi di Giovanna Olivari, in cui l’animale racconta come ha ucciso la ‘rivale’ che da tempo la tiranneggiava per gelosia nei confronti del padrone che invece l’amava. Nella poesia di Alfonso Tramontano Guerritore esplode la voce corale di animali non meglio definiti per mettere a punto i dettagli di una rivolta contro gli esseri umani e punirli, secondo la legge del taglione, di tutte le loro malefatte.
Alla fine si sdraiò a terra. Il tappeto,
stelle di metallo e mobili di ciliegio.
L’odore di urina con disinfettante.
Voleva spezzargli le ossa o la spina
a lui che le aveva tolto i pensieri ma
nutriva bruciore di vecchiaia alla bocca.
Gli sentì il pianto negli occhi quando lo fece
cadere e gli ruppe la gola, vecchia quanto
i capelli, di un ossuto chiarore lunare.
I vetri alle finestre, sogni chiusi.
Con il naso nella terra della stanza
da pranzo, trovò dolore di primavera.
Bevve tutta la ciotola, ricordandosi dei denti rossi.
Si lasciò lavare, avvampando di vita e
ebbe un suo odore, che non fu di urina, la vita.
Alla fine si sdraiò per terra. Era la fine.
Hanno licenziato Bob
Il mangiaspade
Hanno sparato a Horny
La zebra
La mia divisa che non è d’argento puzza
Di alcol rosso
E sterco
Fanno andare la musica
Meccanica
Carino il mio ingresso
Sgranocchio qualche briciola
Di Django
La scimmia
Ho una relazione con il cielo ogni volta che disubbidisco
Mi presento
Sono una bestia da profitto
Ma vi dico: il Paradiso!
Le mie zampe
alte
contro il suo morbido petto
lei oscillava – fingeva – cedeva.
Un saluto – le dicevi –
un po’ troppo affettuoso
un po’ troppo impetuoso
cicici pupupu
mi abbracciavi
eri tutto per me.
Lei odiava
quel tuo lalleggiare
quello sbaciucchiare
tu solo con me
una cagna
una semplice cagna – lei diceva –
E mi strattonava
con rabbia tirava
il guinzaglio strozzava
– no, non mi sbaglio –
quando tu non vedevi
quando tu non potevi
fare niente per me.
L’hai tradita – lei diceva –
tra le dita
le è rimasto il collare
tra le gambe il guinzaglio
ora in fondo alle scale
– no, non è un abbaglio –
e sul suo corpo pingue
– non un grido
né una goccia di sangue –
io t’aspetto e mi fido
tu sarai
ora solo per me.
Piove quando è il momento buono
oppure dev’essere notte
per via della sorpresa: a dire il vero
nessun uomo a questo punto della storia
se lo aspetta mai
quando si ritrova circondato
da un esercito di piccoli mezzi corazzati
che si muove tutto insieme
nero lucido buio che non si vede
Così senza pensare alla più giusta vendetta
privi di libertà e di ogni forma di rispetto
non ci mancherà il coraggio
di finire un miserabile nemico
molto più grande persino
intelligente
ma talmente abituato al male
da svenire per la paura
da non capire
la parola di un capobranco
di un lupo o di un uccello
che di colpo parla e non è un sogno
non è una fiaba
La spiegazione semplice
è la rivalsa, una per tutte
messa in fila un occhio per occhio
una pena capitale
da una parte l’uomo dall’altra
un gruppo nugolo stormo
capeggiato da un animale rivoluzionato
che non ce la fa più
La carezza del vento è il brivido che ci lascia la lettura dei cinquanta haiku riuniti in questo libro di Maria Laura Valente, un’esperta del genere riconosciuta internazionalmente. E internazionale è anche il respiro dell’opera, in cui ogni componimento è presentato in italiano e tradotto in ben quattro lingue: giapponese, inglese, francese e russo. Attenendosi perlopiù allo schema classico (5, 7 e 5 more in giapponese e versi piani di 5, 7 e 5 sillabe in italiano), gli haiku di Maria Laura alternano componimenti scritti secondo la tecnica della toriawase, ovvero una combinazione tra due elementi privi di connessione logica che tuttavia veicolano un senso di unità, e della più difficile ichibutsujitate che prevede la presenza di una sola immagine della quale si esplorano i dettagli. In entrambi i casi, il salto logico (kiru) è perlopiù marcato dal segno di interpunzione della lineetta. In ossequio alla tradizione, molti degli haiku della raccolta presentano un riferimento stagionale (kigo), che può essere diretto (mare d’inverno; sera d’autunno) o indirettamente evocato da un evento atmosferico (la prima neve; l’ultima neve) e più spesso da elementi appartenenti al mondo vegetale (foglia caduta; ciliegi in fiore). Nel rispetto di questi codici, Maria Laura porta avanti un suo percorso originale, offrendoci un libro che da un lato può essere interpretato come un viaggio esistenziale, dall’altro goduto come una sequenza di opere pittoriche. Questi haiku danno infatti prova di una sintesi visiva particolarmente efficace: bastano rapidi tocchi di pennello per offrirci un’immagine vivida che non di rado colpisce per la forza del dettaglio. Sembra, in particolare nei primi versi della raccolta, di trovarci in presenza di opere impressioniste (l’ombra del faro sciolta nel tramonto, i frammenti sparpagliati di luna piena nelle acque scure) o di fronte a un Van Gogh (nel verde intenso / un fiore di magnolia / cattura il sole) finché a poco a poco la predominanza degli aspetti visivi fa spazio a sensazioni tattili (buccia d’arancia – / l’abbraccio inaspettato / di mio padre) e soprattutto uditive (cinguetta un pettirosso; la voce di mia madre; la voce della pioggia; il suono delle onde; risa di bimbi; il pianto di un bambino). Cuciti ad arte tra loro da ricami di parole chiave ricorrenti – che non di rado si fanno eco da una poesia alla successiva – questi haiku illuminano per lampi l’intero viaggio dell’esistenza: si parte infatti da una strada e da un riferimento all’infanzia per arrivare alla morte bella del sarasoju, un fiore che nasce al mattino e cade intatto alla sera. Tra questi estremi si snoda il viaggio, citato direttamente e ripreso dai riferimenti al “lungo cammino” e all’autostrada. Il paesaggio naturale, con rare incursioni urbane, è dominato dal rigoglio dei fiori, dall’alternarsi gentile delle stagioni e degli eventi atmosferici ed è spesso pervaso da un senso di calma contemplazione. Ma non siamo in presenza di un idillio: non mancano infatti i riferimenti al freddo, che è anche temperatura dell’anima, e alle ombre che, come sapeva Goethe, sono più scure proprio dove c’è più luce. Non solo l’ombra è evocata direttamente in quanto silenziosa accompagnatrice del viaggiatore – sua probabile parte oscura – ma indirettamente la percepiamo nei riferimenti all’orfanotrofio, il cimitero, l’edera nera del ricordo abbarbicato al cuore, la voce della madre che si fa fioca, la convalescenza. In questi versi brevissimi ma tanto intensi da spalancare mondi, Maria Laura non trascura nessun aspetto della vita – dal rapporto con i genitori, alla gravidanza, alla nostalgia per i cari perduti – e si dimostra maestra di un genere antichissimo ma ancora molto amato e largamente praticato in tutto il mondo.
Maria Laura Valente
La carezza del vento
Associazione Culturale LunaNera, 2018