Il viaggio interstellare di Olivier Duveau

di Francesca Del Moro

Come Cosimo, Olivier Duveau nasce in una famiglia benestante e trascorre l’infanzia in una prigione dorata, costretto a rispettare una serie di regole. E come il ragazzo che decide di salire su un albero per non scenderne mai più, così Olivier desidera abbandonare il consesso umano per librarsi molto più in alto, fino alle stelle. Verso queste è diretto il suo “ultimo grande viaggio”. L’aggettivo ‘ultimo’ introduce fin da subito una nota malinconica che lascia presentire un triste epilogo mentre il viaggio ‘grande’ arriva a coronare una serie di piccoli viaggi che Olivier intraprende fin da bambino. Già all’età di sei anni, tenta per la prima volta di oltrepassare i muri della villa ma viene sorpreso e richiamato in casa. Altrettanto fallimentari si rivelano i suoi successivi tentativi di fuga ma per fortuna gli è concesso di viaggiare con la mente. Cosa che fa ogni notte, scrutando il firmamento attraverso la finestra.
Olivier cresce in solitudine finché, raggiunta la maggiore età ed essendo ormai i suoi genitori morti da tempo, eredita le immense ricchezze dei Duveau e si sbarazza dei domestici-carcerieri. Finalmente, oltre a uscire di casa quando ne ha voglia, può accedere alle 77 stanze della villa che gli erano sempre state precluse, in particolare una: la biblioteca. Dopo aver letto a sufficienza, si sente pronto ad affrontare il mondo esterno, così si reca in città, dove incontra una ragazza di nome Estel. Il cuore gli batte all’impazzata e vicino a lei prova la stessa emozione che gli dà la contemplazione delle stelle. Per sette anni torna a cercarla, e alla fine si costringe a dimenticarla. Conclude che le faccende terrene sono troppo dolorose per lui e si prepara per l’ultimo grande viaggio: notte dopo notte, studia le stelle e si immerge in forsennate ricerche e in calcoli complicatissimi allo scopo di raggiungerle. Tutti i suoi sforzi sembrano vani, finché un giorno viene a conoscenza della scoperta della dinamite (dettaglio che ci permette di collocare la vicenda nella seconda metà dell’Ottocento) e capisce che gli permetterà di sollevare in cielo qualsiasi cosa. Sceglie una torre fatiscente abitata da bimbi orfani e abbandonati. Ne prende possesso e, dopo aver condotto i bambini nella sua villa, affidandoli alle cure dei migliori medici e educatori, si appresta a partire. Sei carri carichi di dinamite arrivano dalla Germania e basta premere il detonatore per ritrovarsi in orbita. Come un’astronave, la torre solca il firmamento e Olivier può toccare le trame del cielo, passare attraverso le stelle, fare tappa su pianeti sconosciuti, finché si rende conto di essere attirato da una forza irresistibile verso la Luna. Quando la raggiunge, scopre che è in realtà una piccola porta aperta su un mondo indescrivibile da qualunque vocabolario umano: una bianca immensità trapunta di stelle scure, dove tutto è capovolto. Anche la Terra è rovesciata e Olivier la ribattezza ‘Arret’, un nome in cui si potrebbe riconoscere un invito a fermarsi, data l’assonanza con la parola francese. Ma Olivier sa che il suo è un viaggio senza ritorno e si lancia nel vuoto. Ed ecco l’urto, lo scoppio, l’ambulanza, il bacio di Estel, la ricomparsa delle stelle.
La ricerca della libertà può costare cara, il desiderio di infrangere i limiti convenzionalmente imposti ha spesso conseguenze tragiche. Ma vale la pena tentare come fa Olivier Duveau, provare l’ebbrezza del volo e affrontare la caduta. Un volo folle e mosso da un desiderio di conoscenza come quello di Ulisse, così come lo canta Dante (i cui versi del Paradiso riecheggiano nel concetto di indicibilità del nuovo cosmo), un volo sconsiderato come quello di Icaro che paga con la vita il suo desiderio di avvicinarsi al sole.
L’ultimo viaggio di Olivier è soprattutto il superamento di una soglia, qui rappresentata dalla Luna che dà accesso a un cosmo ribaltato, una sorta di versione in negativo delle tavole precedenti. Una soglia che segna il passaggio dalla vita alla morte, spalancando le visioni del protagonista caduto in coma dopo che la detonazione ha distrutto la torre. Viene naturale ripensare all’attraversamento del cunicolo spazio-temporale in 2001 – Odissea nello spazio, o ancor più al surrealistico viaggio nel buco nero del film The Black Hole del 1979, cui sono seguite numerose altre pellicole sul tema, tra cui la recente Interstellar. Ma la Luna-porta ricorda anche la porticina del Truman Show, che si apre nel finto cielo consentendo al protagonista di abbandonare un mondo fittizio e privo di autentici rapporti umani. Un mondo somigliante a quello descritto nel libro di Jali: nei primi anni della sua vita, infatti, Olivier conosce la solitudine, vive una vita ripetitiva e irreggimentata. In sostanza, fasulla. Ma il suo desiderio di libertà si manifesta fin da quando, ancora in culla, tende la mano verso le stelle della giostrina. Divenuto adulto, vive l’amore con la stessa dedizione con cui studia il firmamento: perfino mentre esplora lo spazio non tralascia di incidere il nome di Estel sulla superficie sabbiosa di un pianeta sconosciuto. Un dettaglio che fa sorridere, uno dei momenti divertenti che punteggiano questa storia malinconica. Le sequenze del viaggio ne sono particolarmente ricche: Olivier cavalca la torre tenendola per le briglie, perde e recupera al volo il cappello, fa pipì dal bordo di una stella, si lancia sulla Terra capovolta sorretto da ombrelli che ricordano un quadro di Magritte. Le ultime pagine del libro fanno economia di parole e spalancano scene di ampio respiro in contrapposizione con le tavole iniziali dominate da architetture verticali e puntute che omaggiano il cinema espressionista tedesco. Gli albori della settima arte sono certamente tra le fonti ispiratrici di Jali – la rappresentazione di stelle e pianeti rimanda piuttosto a Méliès – mentre il disegno, caratterizzato da tratti ‘tirati’, in perpetua tensione verso l’alto come Olivier, ricorda soprattutto Edward Gorey e Tim Burton. Jali gioca con tutte le possibilità della bicromia: punta sui contrasti riuscendo a far balenare lampi di luce e spazia dal bianco più freddo al nero più profondo, passando attraverso un’ampia gamma di sfumature di grigio. Visivamente splendido – tavola dopo tavola, il cielo stellato ci fa, per citare l’autore, “esplodere le retine di piacere” – il libro si pone come una lucida visione dell’esistenza. Surreale, poetico e filosofico al tempo stesso, racconta, come si precisa nelle prime pagine, la storia di uno tra i milioni di esseri umani che hanno abitato la Terra. Come quella di quasi tutti, è una storia destinata a cadere nell’oblio, ma finché viene vissuta ha un grande valore. Nel libro ricorre la simbologia del sette (le 77 stanze proibite, i 7 anni passati a cercare Estel), numero fondamentale nella mistica, che rappresenta ogni forma di scoperta e conoscenza. E, in definitiva, è proprio la volontà di scoprire e di conoscere, superando ogni limite, a ispirare i più audaci viaggiatori. Come Olivier Duveau. 

L'ULTIMO GRANDE VIAGGIO DI OLIVIER DUVEAU
Jali
#logosedizioni
brossura con ali, 168 pagine, 170x240 mm
ISBN: 9788857603988