Uno dei personaggi più memorabili della storia della letteratura italiana, Cosimo, ovvero il Barone Rampante, non ha mancato di affascinare i poeti. Nel suo monologo in versi, Alberto Cini si sofferma sul cambio di prospettiva che la decisione di vivere sugli alberi comporta e sulla possibilità di godere, dall’alto, di una visione più lucida di sé stessi, mentre la poesia visionaria di Alfonso Tramontano Guerritore sottolinea la ricerca di un senso oltre le convenzioni sociali ma anche al di là delle più scontate soluzioni di evasione. Quella che Cosimo raggiunge è la libertà da ogni servitù, come evidenziano i versi abrasivi di Angelo Pini, in cui il ramo è il punto di osservazione perfetto per svergognare ogni rassicurante certezza. È del Cosimo innamorato che Rita Stanzione fa propria la voce nel donare ai suoi versi il largo respiro di una vita in totale sintonia con la natura. Infine, Daniele Barbieri si pone leggermente di sbieco nel guardare al barone appollaiato sui rami e trova nella sua bizzarra decisione un conforto e insieme una conferma per la scelta apparentemente più scontata: quella di diventare adulti e accettare la normalità.
Restano tra i rami i pianeti
sfuggiti alla razzia del cosmo
dovunque piovono frammenti e il mondo
non demorde, non ritorna in piedi
per questo cerco nel fogliame
anche fuori stagione dev’esserci
la traccia di una gemma
di una che sia degna del suo nome
sotto la mia donna viola
così rimasta
circuita dai satelliti dai fiori
Se non atterra io
non demordo, costretto
dagli occhi segnati sul frutto qualunque
Vuoi la fuga? La fiaba?
Io della rivoluzione
non mi posso contentare
neanche del niente che tiene a terra
tutti voi
Non è di nessuno
l’umile servitore
di sangue sereno
ha freddo dei suoi assassini
liberi di andarsene
dal codice della luce
sillaba paure
manipolate dal mediocre
esiliato dal nomade fantasma
rimugina a lungo
sull’enorme bandiera
l’incubo di briciole aride
porta il nuovo ordine
un arrivederci senza colpa
un colpo alla certezza
di facili parole
Sto con i mandorli e betulle
e liane di distanze,
per pochi giardinieri
si apre il seno del lupo
non c’è raggiro, sono io
perso e trovato,
meraviglia di accordi, le foglie
che voi non afferrate
se vogliono, mi affaccio
di lato al vento
e tanto giuro di aver visto:
l’ho vista, più aspra
e dolce di un’erba rampicante
aggirarsi, da gazza spettinata
intorno al mio pensiero colibrì
-dio, quanta tenerezza.
uno sull’altro si sono accatastati i giorni, Cosimo,
uno dopo l’altro sono diventati tanti i cerchi
germogliati nella carne dura del tuo rifugio,
con il tempo il tuo rifiuto è diventato evanescente,
hai deciso di non essere, e sei stato quel racconto
contro il quale il nostro essere da quell’incerto momento
è riuscito a farsi adulto, la tua vita fuori senso
ci ha garantito il valore di quella normalità
che tu sdegnasti perché insensata, ecco il nostro debito
Cosimo, è proprio così che oggi sappiamo essere lieti
nel trovar senso a negare quel tuo negare il buon senso
Sto sopra a un albero
non perché mi gusto il sapore
di questi rami resinosi
ma solo perché mi piace
vedere il mondo dall’alto.
Guardare da questa altezza
la misura di uno solo
dei miei corpi passeggeri.
Sto sopra a un albero
senza afferrarmi alle foglie
come se io fossi un uccello
pieno di curiosità
e di poco valore commerciale.
Sto sopra a un albero
per un sentimento di gratitudine
e per la flessibilità naturale
di questa immobilità.
Sto sopra a un asse terrestre
senza addormentarmi
per vedere passare il tempo
di una clessidra
e sentire la nostalgia
dei miei passi
che sono la mia antica identità
di ogni mattina.
“Adesso i nostri impiegati fanno i robot, metteremo robot che fanno gli impiegati” così ha dichiarato John Cryan, amministratore delegato uscente della Deutsche Bank in una recente intervista. Alla ferocia di questa affermazione potremmo contrapporre il libro di Lucianna Argentino, Le stanze inquiete, nelle parole dell’autrice un’est-etica del lavoro, in cui si compie una riuscita sintesi tra il nitore della parola poetica e l’intento di restituire piena dignità e, soprattutto, umanità al lavoro. Da grande voglio fare la cassa, dice alla mamma una bambina, confondendo la cosa con la persona. Facendone un tutt’uno, chiarisce la poeta, che attinge in queste pagine alla sua esperienza di undici anni come cassiera di supermercato, in lei sbaglia l’infanzia, mentre in altri una banale arroganza. La stessa arroganza dell’AD che ho citato inizialmente per presentare questi versi come strumento di lotta. A differenza di buona parte della poesia contemporanea dedicata al lavoro e scritta da lavoratori, il libro di Lucianna non appare a un primo sguardo ‘militante’: non vi è un’aperta denuncia delle proprie condizioni, non si respira un sentimento di rivalsa. Ma, nel contesto in cui viviamo attualmente, la sua poesia è un gesto politico dirompente: in una società in cui i lavoratori vengono visti sempre più come meri strumenti asserviti al profitto delle imprese e alle comodità dei ‘consumatori’, Lucianna rivendica con decisione la portata umana del lavoro. Chi entra in un supermercato lo fa per acquistare cibo o altri articoli di cui ha bisogno, chi sta alla cassa lo fa per portare a casa uno stipendio ma si tratta pur sempre di persone, e il valore aggiunto rispetto a una cassa automatica è inestimabile. Lucianna lo fa emergere efficacemente offrendoci una commedia umana che spesso fa sorridere, intenerisce, come nei molti scambi tra bambini e adulti, e a volte stringe il cuore. Anche quando racconta di malattie, umiliazioni o terribili lutti come la perdita di un figlio, la sua scrittura non cede mai al patetismo ma riesce a suscitare commozione mantenendosi coerentemente asciutta, essenziale, misurata. Le storie di cui la poeta ci mette a parte nascono dagli incontri quotidiani con i clienti alla cassa e bastano pochi dettagli, frasi che le vengono rivolte o conversazioni colte al volo, per permetterci di sbirciare dentro le “stanze inquiete” ovvero le vite di queste persone. Nella sua giornata lavorativa, Lucianna è sempre tesa all’ascolto, all’empatia, si sforza, come avverte attraverso la citazione di Spinoza in apertura di libro, di “capire le cose umane”. I brevi contatti, spesso ripetuti, con ciascun cliente, permettono di intrecciare rapporti, scambiare calore, trarre spunti di riflessione e domande da porre a sé stessi. Per converso, capita di imbattersi nell’indifferenza di chi tiene gli occhi bassi, non smette di parlare al telefono mentre appoggia la spesa sul banco, se ne va senza un saluto o si lamenta per un nonnulla. Ma, nel bene o nel male, questi incontri rappresentano un arricchimento, che Lucianna sceglie di condividere permettendoci di guardare nelle stanze degli altri per capire qualcosa di noi stessi, e non da ultimo aprendoci la sua stanza. Non nasconde la fatica, spesso la frustrazione delle sue giornate ripetitive, i suoi dubbi e le sue insicurezze, lo sforzo di regalarsi spazio per la poesia. Quello che ci dona la lettura di questo libro è un senso fortissimo di umanità, di tenerezza, di condivisione, una dichiarazione a voce alta del valore di qualunque persona con cui incrociamo il nostro percorso nella vita. Anche se per pochi minuti, anche se separati da uno schermo di plexiglas, e con le ore incalzanti del nostro tempo spietato sempre alle calcagna.
Lucianna Argentino
Le stanze inquiete
La Vita Felice, 2016