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Il posto delle balene

di J. M. G. Le Clézio

C’era qualcosa di inquietante, addirittura di sinistro, in quella baia al crepuscolo. La solitudine della costa, l’asprezza delle montagne color rame, il freddo candore delle saline e l’acqua scura all’ingresso della laguna, con quella specie di isola, quel banco di sabbia grigia, tutto dava l’idea di un passaggio verso un mondo fantastico. Ci tornavano in mente le leggende più paurose, quelle dei pesci del diavolo che attaccavano le scialuppe e le stritolavano con i loro corpi giganteschi, frustando l’acqua con le code finché non restava un solo uomo vivo. La notte ci sorprese all’entrata della laguna e tirammo la scialuppa sulla spiaggia. Decidemmo di accamparci lì, in attesa della prima marea dell’alba, per poi continuare l’esplorazione.
Non potrò mai dimenticare quella notte. Dormimmo sulla riva, senza avere idea di dove ci trovassimo, senza nemmeno vedere le luci del Léonore. Gli uomini si sdraiarono sulla spiaggia, senza coperte, perché l’aria era mite e non c’era un alito di vento. Io cercavo di dormire, ma sentivo il rumore delle loro voci. Parlavano a voce bassa, senza vedersi, al solo chiarore delle stelle che illuminavano vagamente la sabbia della riva, ascoltando le onde che venivano a morire sulla spiaggia. A volte si udivano rumori strani nel canale, il fruscio dell’acqua sui corpi dei pesci giganteschi, e avvertivo l’odore caratteristico del loro fiato. Gli arpionieri allora balzavano in piedi per cercare di scorgere qualcosa, seguivano il rumore delle soffiate lungo la costa.
Più tardi sorse la luna e vedemmo il mare e l’acqua della laguna, liscia, senza un’increspatura, e vuota di balene. Allora mi addormentai, col mantello come coperta e un braccio che mi faceva da cuscino. Si era alzato il vento, la luna saliva lentamente nel cielo sopra la laguna. Io sognavo quello che non avevo ancora visto, sognavo il segreto che ero sul punto di scoprire.
Prima dell’alba, ci svegliammo tutti insieme. Forse era stato l’Indiano a svegliarci con quel grido nella sua lingua: «Awaité pawana!», l’unico che tutti aspettavamo. Era in piedi sulla spiaggia, accanto alla scialuppa, appoggiato al suo arpione, e guardava in direzione della laguna. Vedemmo allora l’acqua grigia, coperta di sagome nere che scivolavano lente. Non credevo ai miei occhi, e sono sicuro che ognuno di noi si chiedeva se non stesse sognando. Finalmente vedevo quello che avevo cercato per tanto tempo, quello che da sempre avevo sentito dai marinai di Nantucket, quando raccontavano che d’inverno il mare si copriva di balenottere e di balene franche, talmente numerose da far pensare a una mandria in una pianura.
Lungo il canale, i corpi delle balene scivolavano lentamente, con la schiuma che orlava i dorsi neri. Sentivamo nitidamente i colpi delle code sull’acqua e i getti degli sfiatatoi che schizzavano da ogni parte, con un rumore rauco che risuonava nel silenzio della baia. Gli uomini, uno dopo l’altro, si avvicinavano alla riva per guardare. Subito dopo ci fu un’esplosione di grida, grida selvagge e feroci, e io diedi l’ordine di mettere la scialuppa in mare. Le balene, spinte dall’onda della marea, nuotavano verso la parte alta del canale, e da qui penetravano nelle acque salmastre della laguna. Erano così numerose che in certi punti sbattevano una contro l’altra.
Sulla scialuppa, gli uomini cominciarono a remare. Avanzavamo lentamente, seguendo il percorso delle balene, facendo attenzione a tenerci accostati ai fondali bassi per evitare di farci stritolare dai giganti. L’isola di sabbia su cui avevamo passato la notte era quasi completamente sommersa dal mare. Già migliaia di uccelli oscuravano il cielo e si spostavano con noi, come se sapessero ciò che stava per accadere.
Il 10 gennaio, verso le sei del mattino, entrammo nella laguna. Era proprio come l’avevo sognata, pallida, immensa. Le linee sfumate dei banchi di sabbia e delle penisole si confondevano col cielo. Sullo sfondo, come sorte dal mare, le montagne di quarzo rosso, di un’incredibile durezza, già rilucevano al sole. Ma era l’acqua a darci una sensazione di vertigine, un’acqua calma e scintillante, nella quale si accalcavano gli immensi corpi neri, a centinaia, forse a migliaia. Sulla prua della scialuppa, accanto all’arpioniere indiano, io guardavo, senza dire nulla, e mi sembrava di essere improvvisamente entrato, di forza, in un mondo perduto, separato dal nostro da innumerevoli secoli. Le balene scivolavano tranquille nella laguna, lungo i canali tra i banchi di sabbia. C’erano alcune femmine che avevano già partorito e sostenevano i loro piccoli in superficie perché potessero fare il loro primo respiro. Altre, enormi, rovesciate su un fianco, aspettavano che arrivasse il momento del parto. I maschi si tenevano a una certa distanza, tutti insieme, come per fare la guardia, formando con i loro corpi immensi un’unica muraglia scura.
Noi guardavamo in silenzio, affascinati. Poi, improvvisamente, io diedi l’ordine e la caccia silenziosa ebbe inizio. La scialuppa si diresse verso il branco. L’arpioniere indiano stava a prua, in piedi, col cannone carico. Dietro di lui, il mozzo preparava il canapo e i galleggianti. La scialuppa fendeva l’acqua calma della laguna, senza quasi fare rumore, senza lasciare scia. Benché fosse ormai giorno, non si vedevano ancora i fondali. L’acqua aveva un colore lattiginoso e torbido, che si confondeva col cielo. Eravamo tutti sul chi vive, in attesa di ciò che stava per accadere.
A poca distanza da noi, a tribordo, passò un’ombra, una lunga nuvola nera che scivolava a fior d’acqua e che emerse all’improvviso, diventando una montagna che si ergeva nell’aria in una pioggia di gocce, e subito dopo si rituffò con un frastuono così assordante da lasciarci per un secondo tutti impietriti. Ma già l’Indiano aveva premuto il grilletto e l’arpione schizzò via dritto davanti a noi imprimendo alla scialuppa uno scossone che la bloccò, mentre il cavo si srotolava sibilando. Ci fu un grido di trionfo, e il pesce del diavolo, una femmina gigantesca, si immerse prima che potessimo vedere se l’arpione l’aveva colpita. Ma un attimo prima di tuffarsi l’animale aveva emesso quel soffio rauco che conoscevo bene, che nessun uomo può dimenticare. Il cavo si srotolava a tutta velocità, i freni sbattevano contro il bordo della scialuppa con colpi che sembravano spari, e intanto il mozzo bagnava il legno per evitare che prendesse fuoco per la frizione. Un attimo dopo la balena riemerse di nuovo con un balzo straordinario che ci lasciò senza fiato, tanto grandi erano la bellezza e la forza di quel corpo che si ergeva verso il cielo. Restò immobile per qualche frazione di secondo, poi ricadde in un getto di schiuma galleggiando in superficie, leggermente sbilenca, e intanto vedevamo il sangue colorare la laguna e arrossare il soffio che usciva dagli sfiatatoi. In silenzio, la scialuppa si avvicinò alla balena. All’ultimo momento, quando un fremito dell’acqua indicava che l’animale stava per muoversi, l’Indiano sparò il secondo arpione che si conficcò in profondità nel corpo della balena, proprio sopra l’articolazione della pinna, tra le costole, colpendola al cuore. Subito il sangue schizzò dagli sfiatatoi, con un getto che partì alto nel cielo, un getto rosso chiaro, che ricadeva sulle nostre teste e sul mare come una pioggia. L’immenso corpo ebbe un soprassalto, poi si immobilizzò in superficie, girato su un fianco, mostrando il dardo dell’arpione, mentre nella laguna la macchia scura si allargava, circondava la scialuppa. Stranamente, gli uomini erano ammutoliti. In silenzio misero il gancio sulla sommità della testa e la scialuppa ripartì verso l’estuario della laguna, rimorchiando la balena verso il Léonore.
Giunti alla nave, fummo accolti da grida di trionfo. Gli uomini si adoperarono per sistemare il corpo della balena a fianco della nave facendo passare le catene attraverso lo sfiatatoio e la mandibola. Subito, approfittando dell’alta marea, partirono altre scialuppe per cacciare altri pesci del diavolo. Verso mezzogiorno, con la bassa marea, erano già state uccise almeno dieci balene, più di quanto il Léonore potesse rimorchiare. Abbandonammo le prede meno grosse e ritornammo verso nord, in direzione del campo dei bucanieri.

Traduzione di Maria Vidale, Roma, Donzelli 2011 (pp. 33-39)

Il posto delle balene
J.M. Le Clézio
Donzelli editore