Chiamati a confrontarsi con il tema dell’incesto, i poeti qui selezionati offrono una varietà di stili e punti di vista. Ispirandosi a un fatto di cronaca, i versi cesellati e densi di Silvia Secco portano a un epilogo tragico una scena di ordinaria quotidianità svelando come l’orrore si annidi quasi sempre nel fondo di un’infanzia in apparenza normale. Sia Giorgia Monti sia Alessandro Silva assumono la prospettiva delle vittime di abusi paterni e indifferenza materna, ma scelgono toni molto diversi: la prima avvalendosi di uno sguardo innocente e delicato di bambina, il secondo utilizzando il linguaggio più esplicito e aspro di una donna già adulta. Daniele Barbieri si fa invece carico del coraggioso compito di entrare nella mente del carnefice, con i suoi distici che inesorabili precipitano in un gorgo di amore e sangue fino alla più amara delle conclusioni. Infine Alberto Cini solleva il sipario della comune condanna svelando come l’incesto abbia sempre fatto parte dell’umanità, che nei secoli lo ha adorato nei suoi miti, sublimato nella letteratura, sognato nel suo intimo.
un teatro curato e fatuo
dove sulle tavole del palco in luce
avviene l’amplesso dei consanguinei
che bravi che sono? (mormorii di fondo)
e se fosse stupro? (mormorii di fondo)
e se fosse sacro? (mormorii di fondo)
un demone dalle quinte esce d’improvviso
con un becco da corvo e occhi da civetta
e grida alla platea ammutolita
di un pubblico ancora borghese nell’intimo
“grido la storia e grido il silenzio!
grido l’incestuoso essere di Neanderthal
che di tale costume determinò la scomparsa!
la maschera della discendenza dei faraoni
ed il sangue non diluito degli Incas
e la moglie sorella e prostituta di Abramo
l’inconsapevole ubriaco Lot dalle cui figlie
nasceranno popoli interi
dall’Edipo ancora inconsapevole
che si acceca
e partorisce la civiltà occidentale
grido il silenzio
delle bambine e dei bambini
un racconto di Anaïs Nin
i sei anni di Isabelle Aubry
i disegni sulla scrivania degli psicologi
i link dei siti pornografici
i sogni di tutti che rotolano lontano
dall’ordinamento penale
se maggiorenne con rapporto di adozione
non è reato
la signora col gatto della porta accanto,
mia nonna che mi racconta:
sai, la lasciavano col nonno
poi il bambino è nato morto,
lei non si è mai più voluta sposare!”
il corvo scompare
la civetta abbassa le palpebre
si chiude il sipario, il buio esiste.
sei mia madre e sei mia figlia e ugualmente ci lasceremo
ci lasceremo lo stesso, nonostante siano strette
le viscere che ci legano, nonostante così forte
sia il vincolo, nonostante tutto, nonostante tutto,
nonostante tutto il sangue che c’è in comune tra noi,
nel sangue va il desiderio, nel sangue corre il tuo vincolo,
sei mia madre e sei mia figlia e per sempre ci lasceremo
se gli umori non si mescolano più, pure il tuo sangue
è già secco
L’armadio. Con un ombrello scozzese,
vivo amaranto, come il capezzolo
masticato dalle sue api dei denti.
Lo fece nel sudore di pavone
dopo dodici vite coniugali
ma non tolse il mio cuore dalla roccia
scricchiolante del covile nuziale.
La busta di carta, tra la cucina
e le tazze mal lavate, è gravida
delle arance e una melagrana, unica
creatura che congiunge il suo sangue
in file profonde di denti senza
sciupare menzogna. Io sarò per sempre
confusa, più di una risposta dentro
un pozzo d’inchiostro, morto come
l’orbita vuota della finestra. Ora
vede un corpo di lingue ancora calde
separate dalla danza del fuoco.
Il mio corpo ventunenne lasciato
mangiando la sua altezza delle anche
insinuate nella bocca, un incendio
contagioso. Bello quando nacque
la lunga folgore di olio. Mia madre
mi fece cavare i denti perché
“Ti puzza di uomo freddo il fiato”.
*Quelle mani che si avvinghiavano
a lei di notte, di Yves Bonnefoy
Ti profumavano
le mani di carbone.
Io ero più buona
sotto la luna.
Cristallo di rocca
mi ossidavo al respiro.
Dentro la scossa
tastavo vie di fuga
sulla tua schiena.
Sottili gli spazi.
Con un fischio alle orecchie
ci entrava -espanso-
il silenzio.
Nelle attese
mi disponevo alla paura
come a una grazia.
L’ombra celeste di una donna
oltre la porta
che non apriva.
Tu eri fiero.
Soffiavi sui miei capelli
un’aria vuota.
Quell’ago di barba
solo quello
l’offesa.
Padre, come si fa
a pungere una rosa?
(A Fortuna Loffredo)
Le bamboline salgono le scale
dei palazzi con le ginocchia sbucciate,
le ciabattine. Portano nomi come
caramelle. Suonano alle amiche
per giocare sulle terrazze sgombre
delle antenne, a unire i puntini dei nei
nella forma del lupo. Indossano
magliette preferite con le ali
contano i loro anni, fino a sei. Poi
si chiudono la bocca con le mani
gridano la faccia dei padri. Fanno
il salto, volano giù otto piani.
Due edifici in cemento armato, architettura anni sessanta: uno tutto vetro e luci al neon, l’altro senza finestre, composto di monolocali in stile giapponese. Sono questi gli spazi di una distopia in versi, un nuovo oltremondo di matrice dantesca, in cui si respira la stessa angoscia che pervade la vicenda ospedaliera di Sette Piani, di Dino Buzzati. Nel nosocomio di Rosaria Lo Russo la degenza si protrae all’infinito, in una condizione di amortalità che corona il mito odierno dell’eterna giovinezza, da conseguire a colpi di zumba, yoga, fitness e chirurgia estetica. Coscienze ormai morte giacciono nei corpi costantemente rinvigoriti dei signori del piacere, irreggimentati nelle loro giornate scandite dai prelievi, dalle attività fisiche e ludiche, dagli sceneggiati alla televisione. Non manca il puro godimento, garantito dalla somministrazione di cibo nonché di sesso, quest’ultimo mediante un getto d’acqua dal nome mitico di Clori. Per entrare nel nosocomio è sufficiente dimostrare una buona liquidità ma anche l’ottemperanza ai dettami della società borghese, ovvero vantare una famiglia felice, con due figli e possibilmente un cane. L’anonimato è garantito, del resto qui non servono nomi, né altre distinzioni tra individui. Scopo principe dell’istituzione è lasciare le cose come stanno e in questo senso le dottrine orientali e il pensiero occidentale si sposano alla perfezione: le attività dinamiche e la contemplazione fungono da opposti tiranti per immobilizzare i degenti nel loro status di placide nullità. Rosaria ci accompagna a visitare il nosocomio lasciando ai suoi abitanti – operatori e pazienti – il compito di raccontarlo, mentre a poco a poco scopriamo con raccapriccio che quella descritta è in realtà la nostra vita. La vita dell’uomo contemporaneo svuotata di ideali e ideologie, nonché di autentici rapporti interpersonali, in cui non ci si preoccupa per il futuro, ma si cerca di protrarre l’esistenza il più possibile, contro gli spauracchi agitati all’uopo – tasse, extracomunitari, sciami sismici – e preservando a tutti i costi il benessere, sommo valore insieme al denaro che permette di comprarlo. E non fa differenza che si tratti di benessere spirituale o fisico: in questo senso il dottor Freud, l’estetista che invita all’autostima, il personal trainer e i maestri di yoga condividono lo stesso obiettivo, ovvero fornire istruzioni a corpi e menti, stabilizzandoli nella condizione patologica. Una condizione ben riassunta dalla citazione di David Foster Wallace, esergo di una poesia della terza sezione: Di come tutti noi […] diventammo vacui e apolitici, e anche torpidi, docili, con la mente profondamente e mollemente in folle. Così vuole ‘papi’, plastificata caricatura di Dio, l’ideatore di questo mondo che infine passa il testimone al nuovo e rampante direttore, due figure in cui si riconoscono i protagonisti della politica nostrana. Asserragliati nel nosocomio, i degenti osservano con terrore l’ergersi del dormitorio, a cui è dedicata la terza e ultima sezione del libro, omaggio esplicito all’Antologia di Spoon River. Qui si raccontano morti perlopiù riprese da fatti di cronaca: da Pippa Bacca a Mia Martini, dal bambino kamikaze agli imprenditori suicidi, passando per i minatori del Sulcis e il giovane stroncato da un infarto sul campo di calcetto. Sono alcuni degli innumerevoli modi per finire nel dormitorio, un passaggio che, per quanto i degenti lo rifiutino, avverrà per tutti. Così giunge a compimento questa potente allegoria dell’esistenza nella quale come da sua cifra Rosaria Lo Russo alterna scenari tragici e grotteschi, attinge all’attualità così come ai modelli letterari, combinando ricercatezza linguistica e mimesi del parlato, spaziando dai componimenti brevi a poemetti come quello, strepitoso, dedicato all’acqua, e un bestiario allegorico.
Rosaria Lo Russo
Nel nosocomio
Effigie edizioni, 2016