uno
Ecco quello che so:
Mi chiamo Budo.
Esisto da cinque anni.
Cinque anni è una vita lunghissima, per uno come me.
È stato Max a darmi questo nome.
Max è l’unico essere umano che riesce a vedermi.
I genitori di Max mi chiamano l’amico immaginario.
Voglio molto bene alla signora Gosk, la maestra di Max.
Invece l’altra maestra, la signora Patterson, non mi piace per niente.
Non sono immaginario.
due
Per essere un amico immaginario, sono molto fortunato. Esisto da molto più tempo di quasi tutti gli altri. Una volta conoscevo un amico immaginario che si chiamava Philippe. Era l’amico immaginario di uno dei compagni di classe di Max all’asilo. È durato meno di una settimana. Un bel giorno è apparso all’improvviso e sembrava abbastanza umano, a parte il fatto che gli mancavano le orecchie (un sacco di amici immaginari non hanno le orecchie). Ma poi, dopo pochi giorni, è sparito.
Sono fortunato anche perché Max ha molta immaginazione. Una volta conoscevo un amico immaginario di nome Chomp che era soltanto una macchiolina sulla parete. Solo una chiazzetta scura e confusa, senza una vera forma. Chomp sapeva parlare e in più sapeva scivolare su e giù lungo la parete, però era bidimensionale come un pezzo di carta, quindi non poteva mai staccarsi dal muro. E poi non aveva le braccia e le gambe come le ho io. Anzi, non aveva neanche la faccia.
L’aspetto degli amici immaginari dipende dalla fantasia dei loro amici umani. Max è un bambino molto creativo, perciò io ho due braccia, due gambe e una faccia. Non mi manca nessuna parte del corpo, e questo fa di me una rarità nel mondo degli amici immaginari. A quasi tutti gli amici immaginari manca questo o quello, e alcuni non hanno nemmeno un aspetto umano. Come Chomp.
Però troppa fantasia può essere un male. Una volta ho conosciuto un amico immaginario che si chiamava Pterodattilo e aveva gli occhi fissati in cima a certe strane antenne, sottili e tutte verdi. Povero Pterodattilo: magari al suo amico umano sembrava fichissimo, ma lui con quegli occhi non riusciva neanche a mettere a fuoco. Mi diceva che aveva sempre la nausea e che inciampava continuamente nei suoi stessi piedi, che erano solo due ombre confuse in fondo alle gambe. Il suo amico umano era così ossessionato dalla testa di Pterodattilo e da quegli occhi pazzeschi, che non aveva neanche provato a immaginare com’era fatto dall’ombelico in giù.
È una cosa che succede spesso.
Io sono fortunato anche perché sono mobile. Ci sono un sacco di amici immaginari che sono costretti a restare appiccicati ai loro amici umani. Alcuni hanno un guinzaglio al collo. Certi sono alti dieci centimetri e stanno tutto il tempo infilati nelle tasche. Altri ancora sono delle macchie sul muro, come Chomp. Io, invece, grazie a Max, posso andare in giro da solo. Posso anche allontanarmi da Max, se voglio.
Ma farlo troppo spesso potrebbe essere rischioso per la mia salute.
Finché Max crede in me, io esisto. Certe persone, come la madre di Max e la mia amica Graham, dicono che è questo che mi rende immaginario. Invece non è vero. Io avrò anche bisogno dell’immaginazione di Max per esistere, però ho i miei pensieri, le mie idee e la mia vita al di fuori di lui. Sono legato a Max nello stesso modo in cui gli astronauti sono legati da cavi e tubi alla loro navicella spaziale. Se la navicella esplode e l’astronauta muore, non significa che l’astronauta era immaginario. Significa soltanto che gli hanno tagliato i collegamenti che lo tenevano in vita.
Per me e Max è la stessa cosa.
Io ho bisogno di Max per sopravvivere, ma sono comunque una persona indipendente. Posso dire e fare quello che mi pare. Certe volte io e Max litighiamo addirittura, ma mai per cose serie: magari bisticciamo per decidere quale programma guardare in tv, oppure a che gioco giocare. Però è opportuno (è una parola che la Gosk ha spiegato in classe la settimana scorsa) che io rimanga attaccato a Max più che posso, perché ho bisogno che Max continui a pensare a me. Che continui a credere in me. Non voglio finire “lontano dagli occhi, lontano dal cuore”, come dice a volte la mamma di Max quando il papà si dimentica di telefonare a casa per avvisare che torna tardi. Se resto via troppo a lungo, Max potrebbe smettere di credere in me: e se succede, addio!
Matthew Dicks, L’amico immaginario, Firenze: Giunti, 2012, traduzione di Marina Astrologo e Stefano Tummolini