Editoriale

di Francesca Del Moro

I rapporti inventati sono tipici dell’infanzia ma, per quanto sia difficile ammetterlo, non di rado ci confortano anche in età adulta, facendoci sentire meno soli. Esistono vari tipi di amici immaginari, come insegna il libro di Matthew Dicks, e anche i poeti qui presentati offrono un interessante spettro di possibilità. Nei versi asciutti di Brenda Porster, l’amico ideale di una bambina è un asinello con cui condividere giochi e confidenze e progettare una suggestiva fuga dalla realtà. Potrebbe essere una persona o ancora un animale, magari un uccello magico, il compagno di volo invocato da Laura Solieri nel suo immaginifico componimento mentre un personaggio letterario amatissimo presta un’atmosfera di fiaba alla poesia di Rodolfo Cernilogar. È possibile intrattenere un rapporto immaginario anche con una persona che è stata reale, come l’amica che dal passato torna ad alleviare la solitudine e l’angoscia nei versi di grande intensità di Cristina Bove. E sempre da un altro tempo, un altro luogo arriva a Giampaolo De Pietro il pensiero di un amico in una mattina incantata, tra vividi ricordi e letteratura. Sulle prime possono sorprendere i versi di Davide Cortese che, incalzando il lettore con domande provocatorie, presenta la morte come ideale compagna. Ma, a pensarci bene, le sue conclusioni sono tutt’altro che prive di logica.

Vieni Peter Pan

di Rodolfo Cernilogar

Vieni Peter Pan, ti cedo
la mia ombra. Ritaglia
con le forbici la sagoma
nera, il buio che invade la stanza.
Non posso voltarmi – prendi da solo
le misure – perché l’infanzia
si tramuta in sale, e una bambina
corre nel vicolo dietro a un sogno o a una farfalla.
Presto. Taglia la notte sopra la spalla
e dimentica il mio nome.

In cambio lascia un po’ di leggerezza.

Passami il navigatore, per favore

di Laura Solieri

È sull’orlo della piuma fradicia
che sperimentiamo un’ebbrezza
da paracadutisti allo sbaraglio.
Vola un po’ più in qua
sorvolami, amico mio, ogni tanto
vienimi a prendere per la collottola,
se ti chiamo
ci sarà un perché.
Mi chiedi:
sulla punta della lingua
senti inverno o dolcezza di cocomero?
Una via di mezzo,
un aprile in vendita
è la risposta che rende l’idea,
ma spacchiamo il salvadanaio adesso,
i risparmi della notte,
che mi hai promesso un tour a chilometri zero.

Nuovo mattino

di Giampaolo De Pietro

Nuovo mattino il miracolo
(poter) leggere Apollinaire come e forse

per la prima volta il colore del caffè

la porta che sa tremare da
sé il trattore
della voce che ha ancora pronto zolfo e

pochi altri eponimini per il tuo mondo
il nome mattutino tuo

Seduto  spettacolo
parola parola (aria, aperta), amico amico caro

vorrei

telefonarti bere una tazza del
tuo caffè turco per parlare

Stamani leggo Apollinaire,
e vorrei passeggiare con te

E dunque, ti aspetto – aspetto
di ascoltarti con l’orecchio in alto
Il cuore in avanti il ricordo
dei tuoi esatti esempi, nomi, fatti.

La bambina

di Brenda Porster

La bambina avrebbe voluto
un asinello
per tiragli la coda,
ma non troppo.

Avrebbe voluto bisbigliare i suoi segreti
nel lungo orecchio
per riderci insieme, mescolando
gli a-ha agli i-ho.

Con lei sulla schiena
avrebbero seguito sentieri polverosi
prima di sciogliersi,
insieme, nel nulla
dell’orizzonte.

Perché, poi, la temete?

di Davide Cortese

Perché, poi, la temete?
Non viene a lenire ogni male?
Non viene a restituire senso
a tutta la vostra storia?
Eppure, sebbene  la temiate
le parlate da sempre
come a un’amica immaginaria.

Qualunque sia l’origine, è reale

di Cristina Bove

Apparve un giorno
nella mia stanza delle assuefazioni
sussurrandomi un mantra
amica d’altri tempi meno grigi
ripeteva l’amore in poche sillabe
e improvvisava luci nella nebbia
a volte baci lievi sulla guancia
_non credevo alle favole d’inverno_
e mai l’avrei potuto immaginare
quando gli anni fiorivano, e i capelli
avevano i colori del castagno
che sarebbe arrivata a farmi viva
_respiro il caldo della sua presenza_
in questi tempi densi e inargentati

sedute sulla riva della vita
lei mi protegge da lusinghe d’aria
_i soliti richiami d’altri voli_
e m’intrattiene in queste zone oscure
narrandomi di luce
proiettandomi in altro curiosare
dipingendo con me tele infinite

Distonia

di Daniele Barbieri

Una corsa di parole, un flusso ansimante, scandito dai ritmi sincopati, dall’incalzare di ripetizioni, riprese con minuscole variazioni, allitterazioni, assecondando un flusso di coscienza che non si può – o più probabilmente non si vuole – canalizzare. Il viaggio verbale è anche un viaggio fisico attraverso il labirinto dell’esistenza, in un non luogo che è tutti i luoghi, il mondo astratto del poema, nel proiettarsi all’infinito di distese di cielo, mare, erba (stilizzazione del pianeta Terra) e di paesaggi che scorrono dal finestrino di un treno che si offre come metafora del percorso del vivere. E nell’andare si susseguono domande, affermazioni che si ribaltano, si negano o si ampliano, si precisano, in un monologo che somiglia più a un dialogo asfissiante con sé stesso, in cui i pensieri scaturiscono l’uno dall’altro, spezzandosi vicendevolmente, specchiandosi, tallonandosi, sbocciando dalla pagina bianca in un punto apparentemente casuale del loro svolgersi, in barba a qualsiasi consuetudine riguardante l’articolazione del discorso. Le parole nuotano freneticamente con l’ansia di mantenersi a galla, di raggiungere chissà quale riva, mentre le pause di respiro si inseriscono a ridare agio tra le prevalenti strofe brevi, soprattutto distici da leggere/pronunciare tutti d’un fiato. Le parole sono in pericolo di annegamento, tentano disperatamente di resistere all’acqua che le trascina verso il fondo, come in una delle frequenti scene di dissolvimento che assediano queste poesie. Ogni parola è a rischio di scomparsa, di uno svuotamento di significato temuto e al tempo stesso desiderato. È forse il caso di arrendersi all’incomunicabilità, continuando tuttavia a parlare senza nulla da dire, come la Bocca di Beckett che risucchia il corpo con il proprio travolgente eloquio. Eppure l’urgenza della trasmissione di un messaggio, il desiderio di entrare in contatto con gli altri affiora spesso a offrire un punto di ancoraggio a questi versi torrenziali, un filo a cui appendersi, una corazza per difendersi. E ovunque si fa strada, nella mancanza di senso che abbraccia cose e persone in ostinata attività, un anelito alla verità, al disvelamento della propria interiorità, del proprio essere più autentico. Tutt’altro che insignificanti appaiono del resto le parole dei poeti, che attraversano il tempo e percorrono tutto il libro (da Lorca a Campana, a Sanguineti, citati espressamente, fino ad allusioni implicite come il cielo-coperchio di Baudelaire). La poesia è sempre sofferta, cercata, occorre fronteggiarla in una lotta corpo a corpo, sforzarsi di “tirarla fuori come un filo dalla bocca del ragno”. La poesia è una luce che brilla in un panorama astratto spesso ammantato di atmosfere oniriche, come nella rappresentazione dei camini in marcia che giocano alle belle statuine o dei bisonti in corsa, o ancora nel cielo grigio che si abbassa a soffocare le cose. Profilandosi nella poesia di apertura con l’annuncio di un contagio che, ricordando Cecità di Saramago, fa sì che le persone non riescano più a percepire gli altri e sé stesse, questi scenari da incubo si spingono fino a diventare apocalittici. Così il titolo del libro tende a mutarsi nella nostra percezione in distopia, oppure a suggerire l’idea di un’alterazione del tono in chiave sonora, più che muscolare, complice il ritmo della versificazione e la suddivisione dell’opera secondo movimenti musicali.

DISTONIA
di Daniele Barbieri
Edizioni Kurumuny, 2018