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NIENTE

Janne Teller

di Francesca Del Moro

“Non c’è niente che abbia senso,
è tanto tempo che lo so. Perciò
non vale la pena far niente,
lo vedo solo adesso.”

Queste parole poste in apertura del libro ne costituiscono il primo capitolo, ma hanno in realtà lo stile e la collocazione di un esergo, che imposta la chiave di lettura dell’intera opera. Le pagine a venire saranno tese a smentire questa sentenza, ma fin dall’inizio presentiamo che ogni sforzo sarà vano e che non ci saranno happy ending. Lo sottolinea fin da subito la frase “le cose andarono come andarono” all’inizio del capitolo seguente, in cui Agnes si fa carico della voce narrante per raccontare una storia che ha coinvolto lei e i suoi compagni di classe, a quel tempo tredicenni.
Il primo giorno di scuola dopo le vacanze, uno di questi, Pierre Anthon, si alza, rimette tutte le sue cose nella cartella e lascia l’aula dichiarando che niente ha un significato e dunque non vale la pena far niente. Imitando il Barone Rampante, va ad appollaiarsi sul ramo di un susino dal quale bersaglia i compagni con frutti e sentenze. Uscendo, lascia socchiusa la porta, che sembra sorridere agli altri, invitante come quella che segna il confine tra realtà e finzione nel Truman Show. I ragazzi capiscono che Pierre Anthon dice la verità, ma questa verità fa paura, perciò cominciano a darsi da fare per smentirlo e convincerlo a scendere dall’albero. Dopo la rudimentale idea di lanciargli contro delle pietre, il gruppo si organizza e decide di formare una catasta in cui ciascuno è tenuto a depositare qualcosa di molto importante, il proprio “significato”. Collocata in una segheria abbandonata, la catasta comincia a prendere forma, dapprima arricchendosi di oggetti amati o simbolici, come libri, una canna da pesca, un paio di scarpe, un diario, un tappetino da preghiera… rinunce tutto sommato “innocue”. Ma è solo l’inizio: in un’escalation violenta e macabra, quello che sembrava solo un gioco si trasforma in una catena di vendette. Così alla catasta vengono aggiunti, tra le altre cose, la bara disseppellita del fratellino di una delle ragazze, la prova della perduta verginità di un’altra, la testa di una cagna decapitata per l’occasione e il dito indice di uno dei ragazzi. Prima ancora che Pierre Anthon possa vederlo, lo strano cumulo di oggetti attira nell’ordine l’attenzione della polizia, della stampa e di uno dei principali musei al mondo, che si offre di comprarlo. Alla fine il “significato” viene venduto, e contestualmente negato. Non manca di rimarcarlo Pierre Anthon mentre tutto, come da lui previsto, ritorna come prima e si spegne ogni interesse per la cittadina e l’impresa dei ragazzi. A poco a poco questi ultimi perdono la testa, o meglio finiscono di perderla.
Quella che inizia come una normale storia di ragazzini si trasforma in una tragedia, che lascia sbigottiti non solo per l’esplodere della violenza fisica ma anche per la freddezza con cui i protagonisti perseguono i loro intenti. La voce narrante racconta i fatti nella loro terribilità, lasciando trasparire pochissime emozioni, salvo rievocare a volte la paura e il raccapriccio. Di tanto in tanto si affacciano flebili remore morali ma scompaiono ben presto, in ossequio alle regole che il gruppo si è dato. Noi lettori cadiamo preda di un’angoscia crescente e ci sembra quasi di sentire nel nostro corpo le atrocità di volta in volta perpetrate e subite dai protagonisti. La lettura è scorrevole, lo stile asciutto, il linguaggio semplice e crudo. Agnes racconta l’orrore con lo stesso tono con cui riferirebbe di una gita scolastica. Tanta crudeltà attribuita a dei ragazzini ha reso il libro oggetto di forti polemiche e censure in tutta Europa. Eppure ognuno di noi ricorderà soprusi psicologici quando non anche fisici, compiuti o subiti proprio in quelle scuole che vorremmo vedere come il regno dell’innocenza. Il bambino tendenzialmente non è innocente, semmai è spontaneo. Possiamo dire che nuoce ingenuamente, che candidamente è portato a sopraffare i suoi pari. L’opera di Janne Teller ci turba innanzi tutto perché offusca la visione dell’infanzia alla quale siamo affezionati, alla quale vogliamo fortemente credere, così come i protagonisti di questa storia vogliono a tutti i costi credere al significato della vita, alla possibilità di diventare qualcosa/qualcuno. Ed è cruciale, specie perché ribadita più volte, questa identificazione della cosa con la persona. Sono infatti le cose le prime a darci l’illusione di un senso, come dimostrano molti degli oggetti inseriti nella catasta, una reificazione dell’esistenza che prelude alla mercificazione del significato con la chiamata in causa del museo. Tutto ciò che gli oggetti accumulati rappresentano – la religione simboleggiata dal tappetino da preghiera e dal Cristo, gli affetti incarnati dal criceto e dal fratellino morto, la patria nella forma della bandiera, l’arte rappresentata dal dito mozzato del chitarrista, l’innocenza di Sofie ridotta a macchia di sangue su un fazzoletto – viene inghiottito e vanificato dal denaro. Ma i ragazzi alla fine cancellano il proprio percorso, perdendo anche i soldi promessi. Hanno capito che Pierre Anthon ha ragione e reagiscono con un’ultima atroce vendetta. L’epilogo di questo spietato romanzo di formazione disseminato di interrogativi filosofici segna infatti l’ingresso nell’età di quegli adulti – insegnanti, genitori – che durante tutta la vicenda sono stati assenti, gli adulti su cui non si può fare affidamento perché, come dice Sofie, “di significato non ce ne avete dato nessuno”. Crescendo i ragazzi si sbarazzano del rovello insinuato da Pierre Anthon, del suo nichilismo e le sue scelte da anacoreta. E – altro tema ribattuto costantemente – si adattano alla perpetua finzione che sarà la vita.