Un eroe, di solito, ha una medaglia. Qualcuno che ne riconosce il valore gli appunta sul petto un’effigie dorata. O argentata. Insomma, che luccichi e punti un fascio di luce negli occhi degli altri. Un supereroe, invece, nasconde la sua identità indossando una tuta e magari un mantello. Perché a renderlo super sono i suoi poteri incredibili: un supereroe sa volare o vedere nel buio, oppure è talmente forte da spazzare via tutti i cattivi in un istante. Insomma, possiede poteri che è meglio non sbandierare in giro. Tu non avevi spille dorate sul petto e la tua divisa era uno di quei vestitini a fiori che le signore anziane sono solite comprare al mercato. Non accecavi gli altri con la luce di una medaglia, ma avevi anche tu dei superpoteri. Stordivi il mondo di parole. Chiacchiericci. Pettegolezzi. Frasi gentili. Consigli da nonna. E poi sapevi trasformare gli oggetti. Nelle tue mani un tovagliolo diventava un coniglio: poche abili mosse e la magia era compiuta. Era davvero un superpotere perché, adesso che ci proviamo noi, la magia non funziona: il tovagliolo resta così com’è, forse solo un po’ aggrovigliato, ma non gli spuntano le lunghe orecchie che facevi apparire tu. Tu eri la mia nonna. Il mio eroe che ogni giorno mi insegnava il potere di quei foglietti rettangolari pieni di simboli rossi o neri: il potere di ingannare il tempo e stringere legami. Il mio supereroe che trasformava la banalità in qualcosa di unico, un piatto di patatine fritte in un sapore indelebile sulla lingua. Bastava un po’ di zucchero. E anche domani verrò a dirtelo, stringendo fra le mani una rosa rossa, che non sei il mio eroe, e nemmeno la mia eroina. Sono parole troppo comuni per te. E abusate. No, tu sei la mia eroessa. E il tuo nuovo superpotere è quello di riempire un vuoto lungo quattro anni con un mare di ricordi che non si placa mai. Perché un’eroessa è così: ti sta accanto anche se non la vedi. Anche se non c’è. Più.