Esistono tanti tipi di eroi: possiamo ritrovarli nella mitologia, nella storia, nell’arte, ma anche nella nostra vita quotidiana. Si spazia dalla divinità che i settenari rimati di Veronica Liga strappano al pantheon greco per coglierla in un momento di fragilità fino all’anziana che nella poesia di Veruska Melappioni si regala la gioia di un ballo e affronta l’approssimarsi della morte con lo stesso coraggio di un combattente. Altri due componimenti scelgono invece di celebrare l’eroismo dei poeti: in ricordo di Federico García Lorca, fucilato dalla polizia franchista durante la guerra civile spagnola, Valentina Meloni dipinge una scena dai colori vividi, intrisa di affetto e di dolore, mentre in due pregnanti estratti di un più ampio poemetto Enea Roversi auspica che Pier Paolo Pasolini torni di nuovo a levare alta la voce contro la corruzione e la violenza del potere. Anche Pippa Bacca è stata uccisa per aver usato l’arte con coraggio, portando avanti di Paese in Paese una marcia “nuziale” solitaria per la pace; i suoi passi risuonano ancora nella poesia di M.P. Belli, che li avvolge in un’atmosfera sognante e mitica.
Atena oggi è stanca.
Si toglie l’armatura.
Si chiudono le mura,
la piaga si spalanca...
Atena oggi è stanca,
Atena oggi sclera...
“Se fai così ti manca
la forza – quella vera,” –
sussurra la civetta,
l’amica più fedele, –
“Si scivola sul fiele
salendo per la vetta.
Non ti farà del male
calmare quest’affanno:
nemici immortali
domani torneranno...”
Sono eroi i combattenti che affrontano
la morte in guerra. Siamo eroi anche noi
vecchi che affrontiamo la morte senza
bombe e senza assalti, senza fracasso
e senza gloria.
(Fausto Gianfranceschi)
Il cartone indora la corona,
emozione sulla testa da pulcino.
Le mani porgono l’invito e
le braccia reggono la richiesta.
“Oggi sarai la regina del ballo”.
Lo sguardo avvolge l’indugio
e il diniego malfermo.
Una giravolta zoppa precede
un mancato inchino.
mi chiedo dove sei
oggi che la calura ha sciolto
l’incantesimo del tempo
e il rimbombo degli spari
continua a bucare le nuvole
ferito è il cielo di pesca
sui campi ha colato il cremisi
d’arancia: sangre y recuerdos
sulle nostre teste tremano
e appassiscono gli allori
bisbigliando le labbra poetavano
i tuoi versi come una preghiera
ed è scesa la notte
senza che una lacrima sfiorasse
le tue ossa senza neppure un fiore
sopra il corpo innocente della verità.
mi chiedo dove sei
stretto nelle mani il ricordo di non
avere mai taciuto la tua verde aurora
di averti sempre amato e conosciuto
in un palpito in un germoglio
la vita, la poesia sempre parlano di te
Trent’anni di corse affannate
e ben poco è cambiato.
Se tu ci fossi, ora, a indagare
fra le trame melmose
dei giochi di potere
avresti le giuste parole
per ritrarre l’orrore
misero e catodico
di questo assordante vuoto.
*
Nuovi gladiatori dai denti d’oro
affollano le strade della capitale.
Il vento del Tirreno si spinge
fino a Roma: parte il motore
per un nuovo ciak arroventato
da girare senza sosta
ma c’è una verità non vana
che si è fermata
per sempre
davanti alla croce di Ostia.
avanzi avvolta in petali di giglio
dentro veli di bandiere e ricami
liscivia di affetti accompagna il cammino
coppa di mani nude intorno a piedi scalzi
quelli della madre eterna
che lascia i cieli al padre e sceglie la terra
batti i tacchi sul viaggio che cresce
imprime polvere nella pelle morbida
arabeschi di città verdi su cartelli bianchi
un salvacondotto in staffetta comune
e lungo la strada conosci domandi sorridi
mentre il tuo sguardo ritaglia le foglie
Potremmo partire dagli ultimi due versi della citazione tratta da Caino di Mariangela Gualtieri e riportata in epigrafe per inquadrare l’opera di Claudia Di Palma: “Una voglia di pregare. Ma non so più chi e né che cosa”. Il libro delinea infatti una preghiera che si leva dalla nostra esistenza-esilio, rivolta a un tu non meglio definito che a tratti sembra coincidere con il Dio della Bibbia, citata a più riprese direttamente o in modo implicito. Ma a essere in gioco è piuttosto l’anelito al divino, che sembra incarnarsi nell’umanità stessa con la quale si desidera pervenire a una comunione, in una reductio omnium ad unum. Il tu è anche il lettore che si sente attirare verso un’unione nutrita di sospensione, di distanze (ma la distanza è casa), dell’indecisione che ci porta a guardarci negli occhi e ospitare reciproche differenze. Si comunica con i fonemi della pelle, nel silenzio in cui le cellule e i corpi si fanno alfabeti. Ci si unisce con il sorriso che fa comunione, con le mani che si tendono senza toccarsi e che si stringono per fare ampiezza. Per unirsi è necessaria una resa, la bandiera bianca che sventola all’inizio del libro e alla fine ritorna a chiudere il cerchio e a rivelarsi luce. Il linguaggio di Claudia attinge alla mistica con parole che si rincorrono di poesia in poesia, ambiguità lessicale, figure foniche ed etimologiche che impostano una continua tensione/invito verso l’abbandono, la fusione. Una forza che entra in conflitto con la nostra fragilità, la paura, la guerra che ci infuria dentro, il massacro celato dietro la parolina amore e il pericolo di cadere dentro di sé come in una voragine. L’unione che si persegue non potrà fare a meno di passare attraverso una sintesi degli opposti: l’ampiezza, la vastità, l’eterno da una parte e la piccolezza, la miseria, la caducità dall’altra si trovano a convergere così come l’ombra che è rifugio-trincea tende verso la resa della luce. Si vive grandemente nel piccolo atomo e basta togliere una lettera perché le monadi si trasformino in mondi, perché il mistero divino diventi misero. L’unione stessa tra gli esseri umani, il noi ricorrente nei versi, si definisce come plurale sintonia di singolari moltitudini. La dinamica degli opposti prende inoltre forma in espressioni apparentemente ossimoriche come “spietata cura” e “altissima miseria”. Sostituendo una lettera, nell’invocazione che dà il titolo alla prima sezione, Maria lascia il posto a Moria, che si richiama sì a Erasmo da Rotterdam ma lega fin da subito il concetto di morte a quello di maternità, tema quest’ultimo che nella raccolta riveste un ruolo centrale. La madre è inizio e fine al tempo stesso: appare fluida, disangolata, emblema dell’accoglienza (è un corpo che contiene un altro corpo) ma i defunti ritornano al grembo e farsi l’amore è rasentare la consumazione. In tutto il libro, come del resto nei testi sacri, lo slancio amoroso/creativo convive con immagini di violenza e consunzione fino alla sintesi estrema: marciamo di un bellissimo marcire, laddove la polisemia del verbo riprende il cammino della poesia precedente a suggerire l’idea che l’esistere altro non sia che un muovere verso il non esistere (due opposti chiamati altrove in causa). Altissima miseria è un’ambiziosa opera prima che rivela una notevole compattezza e denota una matura padronanza del linguaggio poetico.
ALTISSIMA MISERIA
Claudia Di Palma
Musicaos editore, 2016