A Carla, per moltissime cose e moltissimi giorni
Alzo il braccio vedendo arrivare l’autobus di Cleveland Avenue. Sto aspettando intirizzita alla fermata da venti minuti, ho i piedi doloranti per il freddo. È il primo di dicembre, e sulla città è caduta la prima nevicata. Non credo che il lago gelerà, non succede da prima della Seconda guerra mondiale, quasi vent’anni fa. Non saprei neanche dove cercare i miei pattini, se dovessero servirmi.
Mi siedo al primo posto dopo la linea, vicino al finestrino. L’autobus è quasi pieno, e il vetro è appannato, perciò lo strofino con la manica del cappotto per vedere fuori man mano che avanza pigramente lungo il viale. La prima nevicata della stagione fa sempre sprofondare Montgomery in un micro-caos: gente che spala via la neve dai suoi giardini verso la strada, spazzaneve che la spingono di nuovo sui marciapiedi, e la povera neve che passa da un lato all’altro sporcandosi e assumendo quel colore marrone-grigiastro che la imbruttisce tanto.
E malgrado tutto, Montgomery è bellissima sotto Natale, forse ha persino più luci di Atlanta, luci colorate appese ai lampioni della Highland Avenue e in quasi tutto Centennial Hill. Verso sud, da Garden District in giù, le case sfoggiano alberi dalle decorazioni sgargianti e piccole natività da giardino.
-Alzati, negra, quel posto è per i bianchi – mi dice la voce del conducente.
Guardo la linea dell’autobus che separa i posti dei neri da quelli dei bianchi, ma non ho commesso nessun errore: sono seduta dietro la linea.
-Mi spiace, non ho sentito – rispondo facendo finta di niente.
-Mi hai sentito benissimo, negra. Alzati!
Il conducente, con il suo berretto, la sua giacca di pelle e la sua cravatta annodata male, forse si crede un tenente dell’aviazione che pilota un Mustang P-51 invece di guidare un autobus a Montgomery, Alabama. Alle mie spalle sento un discreto numero di neri che, seduti dietro la linea come me, mormorano il loro disappunto.
Fisso il conducente, che mi guarda dall’alto in basso, con le mani sui fianchi e un’espressione di disgusto misto a superiorità, e mi ricordo di mio nonno Jack, a terra, che geme di dolore con una tibia rotta in un campo di cotone a Elmore. Anche Julius Wallace, il suo sorvegliante, gli aveva detto:
-Alzati, dannato negro, e continua a raccogliere il cotone!
Jack provò ad alzarsi per tre volte, e altrettante cadde urlando di dolore, così forte che le sue grida si sentirono da un capo all’altro della piantagione.
-Non posso, signor Wallace, mi sono rotto qualcosa!
-Dannato negro scansafatiche, ora te le spacco io le ossa! – diceva quello scudisciandolo con un ramo, come se fosse un mulo.
-Mi dispiace, signore, ma resto dove sono. Sono stufa.
-Cos’hai detto, donna? Sei pazza?
-Nossignore, non sono pazza. Ho solo detto che non ho intenzione di cedere il mio posto – mi accorgo che, nonostante il freddo, mi sudano le mani e la fronte. Cerco di nascondere l’agitazione parlando lentamente.
Le bastonate che ricevette Jack furono tremende, ma quello che gli fece più male, come mi spiegò prima di morire, fu l’ingiustizia. Quando arrivò il fattore Smith, si mise a sbraitare contro Wallace finché non smise di colpirlo; il sorvegliante lo guardò come se si fosse appena svegliato da un sogno. Mio nonno Jack piagnucolava come un bambino, a terra, con la camicia ridotta a brandelli e la spalla insanguinata.
-Maledetto stupido, guarda cosa hai fatto! – disse, sollevando la gamba del pantalone di Jack. – Non vedi che è rotta? Si vede l’osso che sporge, è una frattura scomposta! Non potrà lavorare per mesi… e tu gli hai dato anche il resto! Ma ne parlerò con la signora Torrence, non finisce qui – sentenziò il fattore Smith.
- Cristo, William! Ma è solo una bestia da soma!
Anche se Abraham Lincoln aveva abolito la schiavitù negli Stati Uniti da vent’anni, secondo Jack la situazione nelle piantagioni dell’Alabama era cambiata ben poco. “Eravamo solo liberi di portare la nostra miseria da qualche altra parte”, diceva il nonno quando parlava di quegli anni.
-Se non ti alzi immediatamente ti faccio arrestare, devi cedere il tuo posto ai bianchi! – credo che la mia calma apparente stia facendo perdere le staffe al conducente.
-Come diceva mio nonno Jack, quando uno è nel giusto non ha nulla da temere. Non mi alzerò, signore.
Immagino il conducente senza giacca né berretto, ma con una camicia a righe con le maniche arrotolate e le bretelle agganciate ai pantaloni, mentre mi minaccia sudato, con un bastone in mano:
-Mi stai facendo perdere la pazienza! Non sai leggere? Non conosci le regole?
-Signore, sono consapevole delle ingiuste norme che ci regolano. So leggere, sono una maestra. Mi scuso per l’insistenza, ma non mi alzerò.
Nonno Jack non tornò mai più a camminare come prima. Lo ricordo con un bastone, zoppicante come se avesse una gamba più corta dell’altra. Questo non gli impedì di continuare a raccogliere cotone fino alle soglie dei settant’anni. Ma mia nonna Martha diceva che quell’episodio lo aveva cambiato. Non fisicamente. Aveva ucciso la sua allegria, tanto che non cantava più “come un usignolo in calore”, come diceva la nonna.
-Basta! Adesso prendo la r e chiamo la polizia! – è talmente fuori di sé che mentre parla, sputa.
Mi tolgo gli occhiali e uso la sciarpa per pulirli dalla saliva del conducente Wallace, mentre gli dico:
-Faccia quello che deve fare. Io aspetterò qui.
Dopo neanche cinque minuti si sente la sirena della polizia. L’auto si ferma giusto davanti all’autobus, e scendono due poliziotti in giacca, cravatta e berretto. Portano entrambi manganello e pistola, ma si avvicinano a me lentamente, non sembrano arrabbiati. Quando si piantano davanti a me, tutti i neri presenti sull’autobus sono in piedi, rigidi e tesi, mentre i bianchi, che si sono alzati a loro volta, si allontanano il più possibile dalla scena ammassandosi vicino al posto del conducente.
-Signora, per favore, si alzi e ceda il suo posto – dice il più giovane, un bianco molto bianco e molto bello, che nel rivolgersi a me si sforza di reprimere un sorriso. Per poco non arrossisco.
-Chiedo scusa, agenti, ma ho già detto al conducente che non intendo alzarmi.
-Sa che se non si alza dovremo arrestarla per disturbo dell’ordine pubblico? – dice il più anziano, che ha i baffi ed è più serio, ma posato nei movimenti.
-Voi dovete fare il vostro dovere. E io il mio.
-Non ci lascia altra scelta, signora – dice il poliziotto coi baffi, estraendo le manette dal retro della sua cintura.
Dicono che il fattore Smith fustigò Julius Wallace per quello che fece a mio nonno Jack. Nessuno seppe se era vero, l’unica cosa certa è che Julius sparì per diverse settimane dalla tenuta, e quando tornò non prese mai più a bastonate nessun nero. Li guardava tutti con odio e rancore infiniti, serrando le labbra, ma non picchiò mai più nessuno. Il nonno diceva sempre che il fattore Smith era una brava persona, che non avrebbe mai fatto male a una mosca.
Mi portano alla loro auto davanti allo sguardo attento e compiaciuto del conducente Wallace, che a braccia conserte pensa di averla avuta vinta. Ma dal fondo dell’autobus, dove ci sediamo noi neri, parte un coro di fischi, e per strada un sacco di gente si assiepa intorno ai due veicoli, cercando di capire cosa succede:
-Si è rifiutata di cedere il posto a un bianco – dice uno.
-Diceva di essere stanca – replica un altro.
-No, ha detto che era stufa, non stanca – controbatte un altro più in là.
-Agenti, lasciatela andare, non è giusto! – si sente gridare dal fondo.
Un uomo anziano e ben vestito, di razza bianca, passa e scuote la testa senza fermarsi:
-È una vergogna… prima o poi succederà qualcosa di grave sul serio. Tutto ciò non ha alcun senso.
-C’è bisogno di persone come lei, senza pregiudizi. Perché non si candida a governatore? – dice dandogli un’amichevole pacca sulla spalla un omaccione nero in giacca, sciarpa e berretto da baseball.
Mentre chiude la portiera da cui mi ha fatto entrare in auto, il poliziotto bello si gira con una faccia triste, ammettendo con sé stesso di non poter far nulla per evitare di compiere il suo dovere. Partiamo, diretti a tutta velocità verso il commissariato.
Al nostro arrivo, la voce dell’accaduto non si è ancora sparsa. Mi prendono le impronte digitali, mi fanno una foto con il numero 7053 e mi portano nella sala degli interrogatori. Lì appare un uomo grasso e sudato, moro e quasi calvo, in doppiopetto grigio, cravatta nera e camicia bianca con una macchiolina di salsa di pomodoro.
-Signora Parks, sono il commissario Lovell.
-Piacere, signor commissario. – dico tendendogli la mano; la guarda, e alla fine decide di stringermela, svogliatamente.
Jack mi raccontò, poco prima di morire, che un po’ di anni dopo essersi ritirato incontrò il fattore Smith che passeggiava per Elmore. Andarono a bere bourbon insieme. Non confessò di aver fustigato Julius Wallace, ma gli raccontò che il giorno in cui quel barbaro bastonò mio nonno pianse come non aveva mai fatto, e giurò a sé stesso che non avrebbe mai più permesso che venissero maltrattati i neri. Il nonno diceva sempre che il fattore Smith era una brava persona.
-Le farò solo una domanda, dato che i fatti, confermabili da numerosi testimoni, sono inconfutabili. Perché l’ha fatto?
-E perché voi continuate a spingerci da tutti i lati?