Picchiettavo freneticamente il prodotto con i polpastrelli e come da istruzioni cercavo di nascondere il Fiume Azzurro che mi ritrovavo sotto l’occhio destro.
Era vero, un po’ di trucco faceva miracoli e io non potevo rischiare di farmi riconoscere subito.
Cercando di mantenere l’equilibrio infilai lo stivale mancante, rigorosamente made in Italy, e avendo cura di non sbattere la porta corsi al mio appuntamento.
Dopo due giri di rotonda per assicurarmi che l’uscita fosse quella giusta, arrivai con dieci minuti di anticipo sul piazzale del luogo indicato.
Occhi piantati bene a terra e passo svelto ma incerto, mi bloccai stupita all’apparire di due grossi conigli: uno nero e l’altro bianco. Era strano vederli lì, in una distesa di cemento circondati dal grigiume degli austeri stabilimenti.
Sapevo tutto di loro, avevo dedicato molto tempo all’archiviazione per aree geografiche delle diverse razze, conoscevo bene habitat e abitudini. Avrei potuto letteralmente dire, senza alcun timore, che li avevo inventati io.
Seguendo le frecce, arrivai in sala d’attesa nel momento in cui dall’enorme arco sbucava la riccia testa dell’addetta di turno che chiedeva di me. Si fece seguire pochi passi più in là fino al cenno della mano che mi indicava una porta del tutto anonima. Ringraziandola, entrai.
C’era una scrivania in legno pesante di quelle decorate con rosoni in altorilievo e alla sua postazione una donnina bionda dall’aria rassicurante dopo saluti e convenevoli mi chiese:
«Come mai ci vediamo?»
«È per via del cuore» risposi determinata.
«Allora credo abbia sbagliato posto, il cardiologo è al secondo piano.»
«No, non ha capito! È più che altro una percezione. Come quando si spia attraverso una veneziana, solo che io guardo attraverso le fessure della gabbia toracica e ci vedo un enorme mattone. Il cuore si trova al suo interno, ma a dividerlo dalle pareti di coccio c’è uno strato di grasso spesso 5 cm che lo rende ancora più pesante, più affaticato. Questo a volte.
Altre volte, invece, lo sento contrarsi all’improvviso, rimpicciolirsi fino a diventare un dattero raggrinzito. E pensare che tutti credono io non ce l’abbia nemmeno un cuore!»
«Scusi, tutti chi?»
«Ma tutti, tutti... tutti gli esseri viventi! Loro mi vedono così: un crostone pronto ad accusare i colpi fuori e un freddo ammasso di ferraglia insensibile dentro. Fottuti stereotipi!»
«Su, si calmi e provi a raccontarmi tutto per bene. Io cercherò di interromperla il meno possibile.»
«La ringrazio! Se c’è una cosa che non sopporto è essere interrotta mentre sto parlando, ma credo che con lei il problema non sussista.»
Un’occhiata veloce al foglio su cui prendeva appunti che, a mio avviso, era già troppo pieno per le poche parole che ci eravamo scambiate e iniziai.
«Mica è facile essere me! Dalla mattina alla sera una testa gonfia di pensieri che ruota sempre nella stessa direzione senza trovare un po’ di pace.
Sono un caso anomalo, lo so. Pensi, non ho neanche bisogno di fumare! Quando sono lì lì per cedere e accendere una sigaretta, mi accorgo che non serve farlo perché già lo sto facendo. Aspiro vampate dalle ciminiere, sbuffi dai tubi di scappamento e leggeri soffi dai tabagisti.
Mi sto intossicando, il fiato viene a mancare e fatico a respirare. Allora mi incazzo anche se dovrei tranquillizzarmi, mi sento bollire e la parte di ghiaccio che è in me inizia a sciogliersi.
Mi dico che così non va bene, cerco di recuperare il controllo e provo con la respirazione yoga, quella funziona sempre. Mi calmo e penso che forse un bagno caldo o a temperatura ambiente aiuterebbe. Ed eccomi immersa in acque ormai ostili, sotto gli sguardi accusatori degli inquilini marini che non sanno perdonarmi per aver permesso tutto questo.»
Cercare di spiegare è inutile. Non ne sono in grado, non riesco a capire dove ho sbagliato.
Come può uno specchio cristallino essere scambiato per un cassonetto dell’epoca pre raccolta differenziata?
Allora di nuovo mi incazzo, esplodo di lava, sono impregnata di rabbia che strizzo fuori provocando onde anomale e infine mi ritrovo accasciata a tremare.
Tremo dall’agitazione senza potermi controllare e recando danni irreparabili perché scuoto anche loro. Le loro teste chine sul progresso che si alzano di colpo, gli occhi sgranati e spaventati.
Non volevo arrivare a tanto, ma tra me penso che ora sentano tutto il mio malstare. Invece non basta.
La mia richiesta d’aiuto è stata messa in attesa, in compenso la luce è adatta per una foto alle macerie di un suolo ormai malato.