“E l’amore?” mi chiede passandomi le dita sul ginocchio. Vuole saggiare l’effetto che mi fa, ma ci siamo già dette tutto a suo tempo. Ho già constatato l’ennesima impossibilità, l’inutile illusione. “Niente” rispondo, come sempre. Mi sento però in dovere di aggiungere: “Solo qualche schifezza”. Qualche sta per una, ma ho avuto bisogno di dirlo come a chiarire che sono un essere umano come tutti che ogni tanto qualcuno si prende il disturbo di sfiorare. Abbiamo parlato dei corsi di poesia e lei si è accalorata dichiarando che non si può in alcun modo insegnare una cosa del genere. Io ho ribattuto che come in tutte le arti, anche qui c’è la possibilità di esercitarsi, affinarsi e imparare. Ma in effetti non so proprio come riuscirei a scrivere per esercizio. La poesia è qualcosa di romantico, magico e misterioso che non si impara. Come l’amore.
Eppure stamattina salgo sul treno e apro questo vecchio libro che ha già vissuto la sua stagione di scalpore cercandovi una cura. Per l’impossibilità di essere amata, per il mio modo sbagliato di amare. Ho letto appena una ventina di pagine e già mi si sono chiarite tante cose. Le donne che amano troppo ricercano nella relazione un nodo dell’infanzia da sciogliere. Non amata, non apprezzata, neppure vista da mio padre per quello che ero, io continuo a cercare l’approvazione di uomini per i quali non sono niente. Come se diventare qualcosa ai loro occhi, dal niente che sono, fosse l’epilogo felice in grado di cancellare il disamore assorbito in tutti e 45 gli anni della mia vita finora. Mi impressiona leggere illustrati con tanta chiarezza i meccanismi contro i quali ho combattuto per anni, quando mi sentivo colpevole di non suscitare alcun desiderio nell’uomo che mi dormiva accanto. Quando cercavo soluzioni per farmi amare da lui, per fargli desiderare di passare del tempo insieme a me. Troppo grassa, pensavo, e dimagrire era una possibile via d’uscita. Annotavo su un taccuino i buoni propositi, mi illudevo di poter fare una specie di autoanalisi, di autoterapia. Mi immaginavo splendente in qualche bel vestito, con le mie forme esili e perfette. Mi avrebbe amata automaticamente. Ma ero già magra, la gravidanza mi aveva lasciato forse due etti in più del solito. Tuttavia quei 200 grammi, nel suo sguardo sprezzante, crescevano fino a 200 chili. Così sono ingrassata davvero, ho fatto del motivo percepito un motivo reale, dovevo darmi un problema che potessi risolvere. Altrimenti nulla sarebbe cambiato.
Sono passati dieci anni da allora, la storia è chiusa ma non c’è stato alcun riscatto. L’impossibilità dell’amore resta e a volte vorrei non desiderare più nessuno per non avere ancora una volta la conferma di essere nulla. Ma ancora amo, e spero, e tento strade. Tutto questo lei lo scrive nel libro, ed è chiaro. Solo ieri ero in piedi nel teatro, incapace di fare un passo verso di lui che smontava la sua attrezzatura e non mi vedeva. Avevo gli occhi pesanti d’amore che lo fissavano come se volessero toccarlo. Chiamami, adesso, pregavo, abbracciami. Lo seguo in giro per l’Italia aspettando il momento in cui mi stringerà per sentirmi di nuovo come quell’unico giorno in cui senza motivo mi tenne a sé per infiniti minuti guarendomi una ferita fresca di cui non sapeva nulla. Mi avvicino e subito fuggo via, oppressa dal troppo amore e dalla vergogna. Lui è su un palco, io devo salire e scendere, lo guardo dal basso e lui non mi vede. Spesso salgo anche io al centro della scena per splendere agli occhi di qualcuno, e poi scendere, sentirmi dire brava, essere convalidata da sguardi pieni di ammirazione. “Convalidare” è il verbo che uso sempre quando parlo dell’approvazione che mi manca, l’atto che mi salva dall’essere nulla. “Convalidare” è il verbo che lei ripete in questo libro che sono certa di non aver mai sfogliato prima. Continuo a leggere e a capire sempre di più. Ma non riesco a sentire meno. Ho voglia di piangere e continuo a leggere. L’amore diventa una cosa ragionevole che si può imparare. Come si impara ad andare in bicicletta, a nuotare, a guidare, o a tradurre dal francese. Come la poesia, a questo punto, perché no? Prima si deve imparare a vedere tutti i propri errori. E adesso io li vedo, pagina dopo pagina mi vengono sciorinati sotto gli occhi. Se gli dicessi ora che lo amo come desidero da anni, sarebbe come rivelargli che sono malata. Ma il libro promette che, dopo gli errori, verrà il capitolo della cura. Il treno ha fatto una fermata, io mi asciugo gli occhi, vado avanti, devo arrivare alle ultime pagine. Portare a termine l’apprendimento. La guarigione.
Robin Norwood, Donne che amano troppo, Feltrinelli 2013, trad. di Enrica Bertoni