Invitati a lasciarsi ispirare dal cielo, i poeti qui selezionati hanno esplorato il tema secondo diverse prospettive. In sintonia con il numero sette, che è il leitmotiv di tutti i numeri di ILLUSTRATI in uscita nel 2016, Alessandro Silva e Cristina Bove hanno scritto dei sette cieli, che gli antichi immaginavano come orbite in movimento recanti un corpo celeste incastonato come una gemma. Nei suoi versi epici, Alessandro Silva salda il mito della creazione di Allah e il gesto di fede criminale di chi oggi ne contraddice gli intenti mentre Cristina Bove risale a una a una le sfere celesti con intenzioni di preghiera per una fragile umanità. Il cielo dello Zodiaco è invece protagonista dei versi di Serenella Gatti Linares che ricreano la misteriosa magia della nascita come scontro e fusione di opposti che saranno una costante dell’esistenza. Si accendono vividi agli occhi del lettore i brevi componimenti di Gianluca Garrapa e Fiorenza Mormile, l’uno rendendo compresenti in un’immagine pregnante la nascita e la morte, la violenza e la pace di cui il cielo è capace, l’altra personificando, con un richiamo storico e una riflessione sull’amore, il sole e la luna al culmine del suo splendore. Sole e luna sono protagonisti anche dei versi di Anna Maria Robustelli, che celebrano un momento di solitudine in sintonia con la natura mentre la divertente filastrocca di Veronica Liga gioca con due dei significati di Mercurio, trasformando in ammalianti pianeti le goccioline inafferrabili e tossiche che schizzano da un termometro che si rompe.
è stata una corrente elettrica
fra un segno di terra e uno d’aria
quando sono nata
un passaggio nel vuoto
di un interregno
né di qua né di là
e insieme in ambedue
come fra l’ambiente attuale
e la famiglia d’origine
fra bene e male pieno e vuoto
gioia e dolore luce e buio
questa è la vita
i vestiti in verticale occupano
meno spazio che in orizzontale
sole e pioggia
nella stessa giornata schizofrenica
come noi come la società
tristezza e restituzione
nascere di notte e giorno da recuperare
riuscire a essere in equilibrio
su una barca in mezzo alla nebbia
in una linea che collega Toro e Gemelli
e un testardo ascendente Capricorno
fra via Santa Caterina e Senza Nome
esserci riuscita
il lampo della luce al tramonto
prima di piombare nel buio
Attingo mercurio a piene manciate
che cadono in pezzi – palline argentate
mi scivolano tra le dita – ciascuna
che luccica come una piccola luna,
mi lasciano ustioni che sulla mia pelle
sembrano tatuaggi a forma di stelle
mi cadono ai piedi, tintinnano piano
rotolano via – lontano, lontano…
mi avvolge un vapore di odore misto
e io l’inalo,
mi inebrio, mi ammalo –
e non resisto!
Sole che splendi sul filo spinato e sui resort
di cielo in cielo in alisei raggianti
e ci sottrai alle tenebre del nostro cuore oscuro
avvicinati un po’, quel tanto che
c’infiammi finalmente di divino
Selene che ti fai vestire a luce
perché la nostra notte sia più chiara
io ti vorrei sempre rotonda e piena
non solo per chi ama _anche per chi s’è perso
e non ritrova più la casa e il nome_
E tu, pianeta che nell’idrargirio
nascondi l’alchimistico segreto
liberaci dalla pietra che imprigiona
la nostra vera origine
Mercurio alato, rendici le stelle
Bellezza che distogli dalle ombre
Venere smemorata: ci allontani
dalla profonda verità delle tragedie
per una volta almeno rendici brutti, ma
sinceramente umani
Marte di sangue e lame
la violenza che infondi a noi mortali
per combatterci armati e disarmati
trattienila nel centro bellicoso
fatti una culla e cantilena in orbita
Dio degli dei volubili, anaffettivo Giove
stai nel tuo olimpo a giudicare i vivi
assente alle preghiere
degli esseri che non chiesero d’esistere
ma sono i veri eroi tra bene e male
Saturno dalla nebbia circondato
a te appartiene il piombo: dicono che gli anelli
ti rendano un po’ folle nei fotoni
così come da noi su questa Terra
paralizzati e anemici, talvolta stesi al suolo
noi di un pianeta in decelerazione
che sai tante cose di quel tremendo
azzurro fiore che sboccia morendo
(il cielo)
Gli alberi mentre stillano resina
sull’aria. La magrezza dell’erba
nelle capre e la strana quiete prima
degli occhi insanguinati dal boato.
Piange Allah sovrano dei sette cieli:
in due giorni li fece e, fisso e senza
fenditure, ogni cielo sovrappose.
C’era gente qualunque a salire il bus
e lunghe le file di case azzurre:
era il paese prima dello schianto.
Il folle che morì cercando il suo Dio
urlò di sette cieli. È l’illuminato
ora e a fiato cammina sulle terre
che d’ogni cielo fecero impasto. Vuole
mangiare il loto nell’eden del settimo
cielo.
I morti non rivedranno più i morti.
A molti importa solo calcare un’orma
nel viaggio di questa storia circonferente.
Essere
(anche se per
solo pochissime notti)
la favorita del sole.
Qui
fasciami di foglie
si sbracciano dai muri
accanto a chi cammina.
Dopo le nostre parole
sono rimasta sola.
La domenica si apre
a impazzate di vento
e slarghi di sole
fin nella mia stanza.
Ieri notte
una passione di luna
correva
dentro e fuori
dense nuvole rosa.
“Incompiuto” è il sostantivo – epicamente si direbbe epiteto – che presenta Achille fin dal titolo di questo libro di Marthia Carrozzo, un nuovo canto che raccoglie le possibili narrazioni nascoste tra le pieghe dei versi omerici e le suggestioni di altre opere che, da Stazio a Carmelo Bene, passando per Von Kleist, in ogni tempo hanno ruotato intorno alla sua figura. Incompiuto è Achille fin da quando, appena nato, la madre lo immerge nello Stige per renderlo invulnerabile ma lascia inavvertitamente fuori il tallone senza perfezionare la sua immortalità. Incompiuto è l’amore, “un amore, il suo, a metà soltanto”, il sentimento che nella visione dell’autrice prende il posto dell’ira che lo ha consegnato al nostro immaginario. Come avverte infatti nell’intima postfazione, è sempre per amore che Achille sceglie e sbaglia: di Deidamia, di Briseide, di Patroclo, e per amore è vittima sacrificale: di Teti, di Agamennone, di Paride. Sono queste le voci che, insieme a Pentesilea, si alternano in un canto reso omogeneo da una fitta tramatura di richiami, dal ricorrere di figure retoriche soprattutto del ritmo e del significante e dall’utilizzo di un linguaggio aulico e atemporale. Invisibile motore di interrogativi, nostalgie e pentimenti, Achille scivola melodiosamente nel pensiero di coloro che hanno intrecciato il proprio destino al suo, anzi vi passa “attraverso”, parola ricorrente a sottolineare la transitorietà ma anche l’incisività dell’incontro. Incompiuto è anche il concetto di genere, chiamato in causa attraverso le vesti femminili indossate dall’eroe che ama Deidamia, alle quali fanno da contraltare il seno costretto e le armi di Pentesilea impegnata in un corpo a corpo guerresco ed erotico con l’avversario. Incompiuto è soprattutto il destino di un fantasma rimasto ad aggirarsi tra vite che ha lasciato a loro volta irrisolte. Il libro suggerisce la possibilità di un’altra storia, di ciò che sarebbe stato se Achille avesse potuto sottrarsi al suo stesso nome. Viene in mente a questo proposito il Vangelo di Saramago e del resto non mancano i riferimenti espliciti a Cristo, mentre in Paride e Agamennone si adombra la figura tormentata di Giuda. Del corpo di Achille si colgono solo minuscoli dettagli e a emergere sono gli effetti sugli altri corpi a lui uniti in amplessi, sfioramenti e scontri, corpi a cui questi contatti hanno lasciato una profonda irrequietezza. Colto ossessivamente nel suo transitare, partire e perfino svanire, è con la mancanza, come spesso accade, che questo oggetto di un corale e artisticamente sublime struggimento, non l’eroe ma l’uomo fragile e amante, si rivela più forte e più presente che mai.
Marthia Carrozzo
Piccolissimo compianto all'incompiuto
Besa Editrice, 2016