Su e giù per i lievi pendii appena fuori Modena, non ancora Appennino, non più pianura, la mia collega e io stiamo cercando la magia di un luogo in cui ci hanno detto esserci stanze piene di tesori. Ho telefonato all’ora precisa che mi è stata indicata, ho preso appuntamento, ho preso nota dell’indirizzo anche se la parte della spiegazione su come arrivare l’ho saltata perché non capisco il dialetto. Credevo di capirlo, ho ricordi d’infanzia in cui la mia amata Signora Armanda e gli altri vecchi del paese parlavano in dialetto e io capivo, ma sono passati molti anni da allora ed è diventata una lingua estranea dal suono familiare. Dopo aver chiesto in tutte le case del vicinato, su e giù per i lievi pendii dell’appena fuori Modena, in una giornata di fitta pioggia e grigio cielo, siamo arrivate. Lei cercava bottiglie. Io forse cornici, ma soprattutto un’intervista.
Appena parcheggiata la macchina, si è aperta una porta di metallo. Un uomo di circa settant’anni è uscito e ci ha guardate senza dire nulla. È lei? gli ho chiesto. Sì sono io. Prego, cosa cercavate? ci ha risposto. Comprare delle cose... abbiamo risposto noi. E ci ha fatte entrare. Una stanza dietro l’altra, in un labirinto di mobili, lampade, cornici, tazze, vasi, ferri da stiro, giocattoli, scatole, valigie, comodini, vasi, sedie, sgabelli, letti, armadi. Una stanza dietro l’altra. Con appena lo spazio per passare e un fil di luce per vedere. Piove. Oggi non si vede bene, bisogna venire nelle belle giornate di sole, precisa lui. Non c’è la luce elettrica, sarebbe comunque stato impossibile distinguere la lampada funzionale da quelle in vendita. Forse esiste, da qualche parte, ma nel tempo si è persa, la lampadina si è fulminata e nessuno è più stato in grado di trovarla ma soprattutto di raggiungerla per cambiarla. È appena passata l’ora di pranzo e dall’alito so che ha bevuto del Lambrusco. A me piace indovinare cosa mangia la gente guardandone il corpo, sentendone l’alito, osservando il contorno occhi e, come in questo caso, la coupe rose appena appena accennata intorno al naso. Lo immagino a tavola inzuppare il pezzo di crocetta nel sugo e bere due o tre bicér ad vin. Ci chiede cosa cerchiamo e a parte le bottiglie gli porgo l’ultimo numero della rivista ILLUSTRATI e gli dico che vorrei fargli un’intervista. Non la guarda neanche. No. Mi dice. Non mi interessa. Am pias mia. E non ha il tono di chi può essere convinto.
Gli chiedo allora se posso fare delle foto a lui e alle stanze. No. Solo no. Niente altro. Non importa, penso mentre vado avanti in queste stanzette e scorgo scorci meravigliosi. Non importa, quando ogni angolo si trasforma in una foto che non scatterò. Tutti questi oggetti ammassati alle pareti, sul soffitto, negli angoli. Non importa, continuo a pensare, quando la trasparenza del vetro verdone scuro come piace a me è offuscata dalla polvere, ma non abbastanza da togliermi il desiderio di toccarlo. Scorgo un’automobilina di latta gialla e nera con i sedili rossi, ne avevo una uguale quando ero piccola, andava a molla ed era comoda perché ci potevo far sedere sopra le bambole piccole e farle andare avanti e indietro nella stanza. Ho ricordato il solaio della vecchia casa di campagna in cui vivevo e in cui trascorrevo tutto il tempo che mi restava da quello che passavo in giardino. L’odore dell’umidità, della polvere, della terra bagnata che viene da fuori, la luce dell’autunno. Mi faccio coraggio e mentre la mia collega cerca le bottiglie, io converso con lui, per portarlo poi a raccontarmi delle cose e scrivere il pezzo lo stesso, senza nomi, senza foto. E poi io non sono brava a cercare, perdo subito la pazienza, mi piace che le cose mi arrivino in mano, o direttamente al cuore attraverso gli occhi, ma non rovisto. Lui non concede interviste. Io non rovisto.
Ti interessano le lampade? Mi chiede mentre guardo in alto. Gli dico sì, tanto per farlo parlare. E come mai non le piace che le facciano interviste e foto? Insisto. Non voglio della pubblicità. Voi adesso mi dite cosa vi piace... e cambia discorso. Non vuole parlare. Non ci lascia mai sole. Lo vedo che fa fatica a stare ben dritto, che si appoggia sempre a qualcosa, mi chiedo se ci vede bene. Che qualità vi piace per cercare le bottiglie? Non lo so, dico, lo chieda a lei, è lei che cerca le bottiglie. Ne ho cinque tipi di bottiglie, mi dice. Che hanno circa quarant’anni. Vuèter... ci chiama... andate avanti di qui e vi faccio vedere che ne ho. Scorgo una cornicetta con una foto del Papa precedente a Giovanni Paolo Secondo. Diritto... ci guida. Andate avanti. E lei abita qui? Chiedo. Me sono semper libér. Il sabato e la domenica ci sono tut al dé, mi risponde senza guardarmi. Dico cose, per incuriosirlo, ma lui non sembra interessato, è chiuso come i tappi delle bottiglie che ci fa vedere. In questo posto è tutto lento, non si muove niente, solo noi tre che facciamo attenzione a non rompere niente. Montagne di roba che riempiono stanze su stanze di questa casa che sembra non finire mai. Gli ho chiesto se aveva degli eredi. Che cosa pensava di farne di tutta quella roba una volta morto. Se gli piaceva il suo lavoro. Come aveva iniziato. Ma mi ha solo detto di avere dei nipoti e di guardare a destra o a sinistra per vedere delle altre cose che non mi interessava vedere. Gli chiedo il prezzo di una cosa e mi risponde di andare piano, dopo quando andiamo giù, mi dice vai dentro lì, mi invita. Ciai dei fratelli tè? mi chiede d’un tratto. Se le cose potessero rispondere avrei giurato che chiedesse a loro, ma stava chiedendo a me. Sì, ho un fratello, gli dico. E anche lui ha passione per la roba? mi chiede. No. Non credo. A lui piacciono i computer e gli scacchi. Poi tace ancora. È come la luce che a tratti compare, illumina un angolo che non avevo notato, fino a che arriva una nuvola e copre tutto di nuovo. Vuèter solo che veniate quando è giorno... prova a vedere anche lì... Vedo uno strano piccolo comodino di ferro vecchio. È una stufina, ci scaldavano le Signore il magnér. Dentro ci va la legna. Ci scaldavano da mangiare. È vecia quella lè. Ne viene della gente, gente che ha passione per le cose vecchie, si capisce, ci vuole la passione per fare le cose. Tuo fratello non verrebbe menga... e ride. Stanno a Módna anche i tò? Poi tace di nuovo. Un’altra nuvola. Andiamo avanti e io mi rifiuto di proseguire, ho paura che non ci entro neanche nel corridoio, dico, bisogna essere magrine... Te sei giusta, mi dice, ne grasa ne megra... Silenzio. Forse non mi parla perché non capisco il dialetto.
Son trent’anni che io prendo su. Butta l’amo. La chiama la gente? Ho abboccato. Mah... delle volte, ma as cata poco. Quello che ha rovinato tutto è stato i mercati, hanno rovinato a comprare e anche a vendere. I mercatini... hanno rovinato tutto! Ci va quella gente anziana e ci chiedono sà viene quella roba lì? E gli dicono otto volte che non viene e dopo non si compra più. Non c’è niente da fare, lo so io il commercio com’è. Un uomo fuori dalla finestra mi chiede: Il grande capo è lì? Mi volto a guardarlo, ha sentito e sorride. Il grande capo... ripete a sé stesso. Cerca me, mi dice, lascialo aspettare, guardate voi, lui aspetta... e non fa un passo. Allora a te non t’interessa niente? Ma io non sono interessata. La mia collega ha scelto cinque bottiglie e dobbiamo pagarle. Lui le sposta, le mette sul davanzale per guardarle alla luce, temporeggia, ci chiede per dei vasi, ci dice che ha tanta roba e che possiamo tornare... vuèter quando volete vignìr ... ci fa vedere delle altre bottiglie, forse abbiamo comprato poco. Ci vuole della pazienza, ci dice, e dopo cinque minuti buoni gli chiedo ancora: Ma se le prometto che non le faccio pubblicità mi fa fare due foto? NO, meglio di no e mi parla delle cupole di vetro per le madonnine. Aspettiamo, allora apro un cassetto e dico lo sapevo! Dentro tutti i mobili e tutte le scatole c’è qualcosa, bisogna guardare ovunque, come una caccia al tesoro ma senza indizi, se non un provvidenziale divino raggio di luce. Allora quanto le dobbiamo? Interrompo il silenzio. Interrompo il lento scorrere del tempo. Qui, a farvi proprio a modo a modo, guardi che dondolo lì dietro... a fare proprio a modo modo di tutto... 120. Centoventi euro? chiediamo sorprese. Io parlo in lire, mai in euro, in euro non riesci a saltarci fuori a parlare di soldi, invece in lire io ci metto un attimo. Apre il portone di ferro che dà sul giardino, lento pesante e rumoroso. Fuori c’è l’altro signore che aspetta. Sembra che non piove più, vero? No, non piove più, meno male, dice lui, meno male, diciamo noi.