Editoriale

di Francesca Del Moro

Invitati a cimentarsi nell’antica arte dell’alchimia, i poeti hanno scelto di esplorarla nella sua duplice natura materiale e spirituale. Cristina Bove scandisce i tre stadi del processo alchemico dipingendo con vivi colori una serie di immagini di grande intensità. Sulla nigredo si concentra invece Giusi Montali reinterpretandola alla luce della propria peculiare poetica corporea come disfacimento esteriore e interiore in conseguenza di un abbandono che prelude a una rinascita. In una poesia dall’afflato mitico e sacrale, Claudia Zironi si interroga sulle arti alchemiche che fanno brillare l’oro del proprio amato, elevandolo alla statura di un idolo venerato dalle piazze. A perizia da alchimista ricorre Antonella Troisi nei suoi versi metamorfici per attraversare metaforicamente l’inferno e risorgere illesa dalle ceneri nel perpetuo ciclo dell’esistenza. Le arti apprese da Veronica Liga le consentono di fare delle proprie lacrime una sorgente di mutamento e possibile rinascita riportando alla loro specifica funzione le componenti sale e acqua. Infine Angelo Pini evoca una chimica fraudolenta per liberarsi delle esperienze di abbandono aprendo versi affascinanti e allucinati con una virulenta visione infernale.  

ALCHIMIA DI ABBANDONI

di Angelo Pini

toraci glabri li espello nei gas di scarico
ne annuisco la visione
in qualche parte bassa
avvengono distanze di chimiche fraudolente
ora tocca alle mani graziate
ricucire le lontananze
mi ispiro agli abbandoni
cui abilissimo frequentatore
di un sorteggio del domani
sopisco il fiato di mezzanotte
lo risveglio dopo un torbido
sogno buttato in strada

ALCHIMIA

di Antonella Troisi

Come una salamandra
attraversa le fiamme
rimanendo illesa
così ho attraversato il mio inferno
risorgendo
con coscienza espansa
dalle ceneri

eterno ritorno
fra noi
un serpente
che si morde la coda

sole/luna
oro/argento
in sizigia

alchimia
fisica
neurale
da sublimare
da fissare

Ti chiesi dell’oro, rispondesti delle stelle.

di Claudia Zironi

ti chiesi dell’oro, rispondesti delle stelle.
se questa è colpa che si arrenda
l’infinito al firmamento. quanti milioni
i libri che hai sfogliato - la domanda -
per imparare il farti amare
dalle piazze
come un dio azteco
in nero
partorito, quanto dolore ti è servito
per svelare un alchemico segreto.
sono senza sangue, sento
il peso del tuo oro che non scorre, solo brilla.
distesa, aperta resto
un bacio, sulla mano tua, non trema.

(da Fantasmi, spettri, schermi, avatar e altri sogni, Marco Saya ed. 2016)

LACRIME

di Veronica Liga

Prendo queste lacrime
che fluiscono rompendo le dighe
del sonno, degli impegni,
della curiosità di vedere il TG,
dell’orgoglio, della decenza,
della calma apparente di rassegnazione
Le raccolgo e divido
l’acqua dal sale:
L’acqua per dissetare ciò che è arido,
Il sale per condire ciò che è insipido.

Sublimazione

di Cristina Bove

 Accendersi di braci
_il leone ruggisce nel Rubedo_
la sua criniera incendia il settentrione
fonde il metallo
_il corvo ha fatto il nido nel Nigredo_
l’opera al nero estingue ogni colore
 nell’atanor dei sensi
_le nozze misteriose nell’Albedo_
 liquefazione di mercurio e sale
l’anello della sposa è d’oro puro
_nella fusione alchemica_
lo sposo ha inargentato la sua chioma
la mistica dei sensi
nell’essenza volatile dei corpi
trasmuterà la pietra nella Luce
_ci renderà Immortali_

Ritorno infine a casa

di Giusi Montali

ritorno infine a casa, faccio a meno
del fuoco, mi svesto dell’ultimo strato
cammino nel buio e traccio
le diagonali: tu che ti ergi, tu
che sei già morto, tu che ancora esisti
per la mia ostinazione

lo stato di nigredo si ottiene per
esaurirsi di flogosi: io che
mi sfaccio, mi disintegro, succedo
al mio ardore, prima però albeggio
lancio un ultimo segnale, divento
pietra nera, faccio risorgere
e l’uomo e la donna, e li unisco
sulla rotondità del mio capo
lascio il regno, abdico il regno
lo lascio al minuscolo infante

Danzeranno gli insetti

di Sonia Lambertini

Memento di dissolvimento nel loro rapido apparire e scomparire allo sguardo, creature labili e minime che in un soffio annientiamo per volontà o distrazione, gli insetti si prendono la loro rivincita danzando intorno alle umane carcasse quando il corpo arriva alla scadenza. Banchettano con le nostre spoglie, fanno scorta degli avanzi e ci infliggono la pena infernale negandoci il sonno con il loro lieto rumoreggiare. Finiremo tutti su questa tavola: perfino “gli umani / con l’aria importante, / il luccichio nell’occhio / e nei denti in fila, bianchissimi, / con la 24 ore full optional”. Si sa che la morte è ‘a livella, come insegna Totò, e che l’autodistruzione inizia il giorno in cui si nasce. Il cucù sopra la testa scandisce i giorni inesorabile e fastidioso, la sottrazione del tempo è un segno meno che ci cala sulle spalle come una ghigliottina. Intanto dio sfugge al nostro sguardo, pensando ad altro mentre ci cammina accanto, impegnato com’è a rifornire il barbecue di tagli di carne pregiati e sempre freschi. Stiamo giocando “una maledetta partita” ma morire non significa perderla. “Mi salverà guardare la morte” recita un verso cruciale. E lo sguardo ritorna come segno di coraggio di fronte ai pensieri neri divenuti grani di rosario. In questo si può riconoscere il fine ultimo del libro: imparare e insegnare a guardare la morte. Perché “saetta previsa vien più lenta”, come si legge nel XVII canto del Paradiso di Dante. Perché, guardandola negli occhi, a poco a poco si riesce a vedere la morte come una presenza familiare, a mitigare la paura e la terribilità della perdita degli altri e della nostra provvisorietà. “Ho scordato le volte / che ho cantato il suo nome” scrive Sonia ed è cantandolo e ricantandolo che arriva a dominare l’angoscia e lo sconforto che affiorano comunque nei versi, con l’invisibile compagnia di Baudelaire e degli Scapigliati maestri di ironia macabra, di Samuel Beckett con il suo dio beffardo e assente, e con la presenza visibile di Thomas Bernhard e Ingeborg Bachmann, citati nelle epigrafi. Ci sono professioni e situazioni che impongono di frequentare la morte ogni giorno e si suppone che per resistere sia necessario indurire il cuore. Ma questi versi fermi e solidi, in cui ogni parola ha grande peso e respiro (non mancano le dichiarazioni esplicite di una poetica minimalista: “per sottrazione, mi ripeto”; “poche parole / corte, le preferisco”) non suonano duri: assecondano piuttosto “il maledetto vizio della cura”, ci esortano a “tentare l’azzardo / dello stare e il dire”, ovvero ad accogliere ciò che la vita ci offre in ogni istante e a darne testimonianza con la parola.

Danzeranno gli insetti
Sonia Lambertini
Marco Saya ed. 2016