Invitati ad approfondire il significato dei sette chakra, i centri energetici dove, secondo le tradizioni orientali, scorre l’energia del nostro corpo, i poeti hanno letteralmente spalancato i propri versi a visioni intense e ambiziose. Con lo stile musicale e ricercato che sempre la contraddistingue, Cristina Bove accende tutti i sensi di colore in colore fino a raggiungere una dimensione contemplativa e conoscitiva che ricorda il culmine della Commedia. Uno sconfinare del pensiero buddista nelle suggestioni dantesche si percepisce anche nei versi densi e irruenti di Angelo Pini in cui l’attivarsi dei chakra disegna nel corpo una vera e propria geografia oltremondana, tra lave e vibrazioni stellari. Ponendo a contatto discipline orientali e mitologia classica, i versi minimali di Rita Stanzione pulsano dell’energia che consente di portare a termine, con il solo pensiero, l’impresa che costò la vita a Icaro cambiando il suo destino. In una poesia scritta in inglese e tradotta in italiano, Fiorenza Mormile offre invece una visione tutta terrena, incentrata sul chakra del cuore, in cui il pathos scaturisce dalla drammaticità della vicenda narrata in maniera asciutta e senza un’ombra di giudizio.
Immagina il fermento,
la voglia di toccare il sole
nel giglio rischiarato di un’effusione
Leggi quale messaggio primitivo
sta al centro di una fiamma:
soffia! fa’ breccia nel cerchio…
Non era forse tempesta
l’utopia di Icaro? che tuttavia
nel mio pensiero va
e mai si è sciolto
Un millefiore sulla cima
effonde luce
lo conquistai scalandomi a colori
_il primo accese il sesso di vermiglio
l’estasi ed il respiro della vita
il nido ai figli
_poi risalì d’arancio e squillò gioia
la potenza del corpo e dello spirito
il piacere di vivere
_tinse di giallo il centro delle vertebre
un vortice di sole
e s’ancorò la forza e la presenza
_virò nel verde, e il cuore
s’arrese alle emozioni, apprese che
l’amore vero partorisce ali
_indi l’azzurro sfolgorò scintille
e dalla mente e dalle mani trasse
il gesto creativo, l’altro e l’oltre
_l’indaco risplendette sulla fronte
e vidi il senso, la natura, il tempo
il me che sono
_trasfuso nel viola: abbraccio il mondo
comunico alle stelle il mio sentire
e sono dio che percepisce Dio
L’occhio che brucia il fuoco divampa la mente,
scappo al secondo piano senza togliermi la corazza,
al secondo livello guardo i crateri, ebollono lave
poi al terzo apro alle biblioteche d’equilibrio
parole piene di lacrime angeliche.
Mentre al primo il diavolo mi guarda attraverso la tomba
la miseria opaca che lascio in un addio.
Lascio le pretese folli della paura
d’impossessarsi del mio cuore sinistro,
vestendo di un santo il sesso nell’armadio.
Rimangono nel perineo le preghiere d’amore
al piano ultimo le vibrazioni stellari,
senza cappello e lenti oscure.
L’etere della calotta cronica in piena sintonia
col signore ogni volta, sguscio topo di biblioteca,
leggo nel terzo occhio la vita sotterranea.
Una delle mie figlie fa la doula,
“custode delle madri”, esperta in maternage.
Mi racconta che è andata in ospedale
ad abbracciare neonati abbandonati.
Uno del Bangladesh ha ventuno giorni,
cardiopatico con sindrome di Down.
L’altra è bianca, caucasica,
affetta da mielomeningocele.
Sembra che potrà muovere le gambe,
ma senza controllare gli sfinteri.
…
La legge consente ai genitori
di neonati gravemente ammalati
di sottrarsi e abbandonarli in ospedale.
Molti sono poveri, non erano informati,
non sono in grado di gestire un tale peso.
Quei bambini vengono operati,
rimessi in sesto quel tanto che si può,
poi affidati a case famiglia.
Di mano in mano passano la vita.
…
Il contatto è molto utile ai neonati,
ci vorrebbe un’attenzione continua.
Il personale è insufficiente,
per questo si ricorre ai volontari.
Distinte dame delle fondazioni
staccano assegni ma non danno abbracci,
cantano nenie tristi di continuo
restando sempre dietro le vetrate.
Le cavie deprivate della madre
si stringono a un pupazzo di lana.
Ogni cucciolo va in cerca del morbido, del caldo.
…
Mia figlia dice che la prassi non la turba
ma la voce svanisce, si fa fioca,
le corde vocali sono legate al cuore.
Lei pensa al “dopo” dei cattivi genitori
abbandonati per sempre a questa perdita.
Comprendo tutta questa sofferenza: i bambini,
malati e abbandonati, i genitori sotto il peso della colpa,
mia figlia che si sente insufficiente,
le dame dalle braccia buone a niente.
Come è tradizione per l’autrice, il titolo del libro è un neologismo che fonde greco e latino anticipando fin da subito lo stile che caratterizzerà le pagine a venire. Lo sconfinare tra una lingua e l’altra è infatti proprio delle neoavanguardie novecentesche così come lo è la variazione grafica che Sonia porta all’estremo, passando continuamente da un carattere tipografico all’altro, cambiando stile, dimensione e interlinea, spostando parole in apice o pedice, rompendo la regolarità della linea, che ondeggia, saltella, cade, si dispone a gradini. Le variazioni, spinte al parossismo in questa poesia visiva memore della lezione futurista, suggeriscono di volta in volta alterazioni nel tono della voce, richiamano l’attenzione sulle numerose allitterazioni, oppure – è il caso delle cancellature – insinuano dubbi e sospensioni. Enfatizzate dal grassetto e dalle dimensioni esagerate, certe parole balzano all’occhio ancor prima di iniziare a leggere facendo apparire la pagina effettivamente screziata. Ma le “macchie” cui si allude nel titolo sono soprattutto le eruzioni cutaneo-verbali dell’amore, una malattia infettiva che, come tutti i morbi di questo genere, si manifesta con stati di alterazione febbrile e talvolta perfino visioni allucinatorie. Non si può che esserne contagiati: qui tutto fibrilla e arde di una febbre amorosa che ha ammalato l’individuo nella sua interezza, coinvolgendo mente, corpo, cuore. Così come i sensi ne sono vivificati, anche l’intelletto è stimolato a utilizzare al massimo e al meglio i suoi strumenti per celebrare la grandezza della passione, dire dantescamente “ciò che mai non fue detto d’alcuna”. Ed è forse il risultato più straordinario del libro: proporre una scrittura al tempo stesso cerebrale e appassionante, di grande immediatezza eppure infarcita di enigmi, in grado di catturare, anzi eccitare, il lettore ancora prima che sia riuscito a decrittare gli innumerevoli riferimenti (alla cultura classica in primis, ma anche alla religione cristiana e alle discipline orientali). Di certo non tutto è risolto in un tripudio dionisiaco: brillano infatti momenti di grande dolcezza e ovunque serpeggia l’ansia di una totale fusione con l’amata, l’impossibilità di una completezza che provoca dolore, insicurezza e smarrimento. Non manca l’ironia, meglio ancora l’autoironia: questa si manifesta da un lato a livello grafico, con i giganteschi segni di punteggiatura che sembrano irridere le proprie scelte così marcate, dall’altro nel farsi carico di alcuni dei più diffusi cliché sull’egocentrismo dell’artista. Perché in fondo, come si dice altrove nel libro, quello che davvero ciascuno cerca in chi ama è il proprio “cosmico, sfottuto, bastardissimo EGO”.