Nemo’s.

Io ci credo.

Lina Vergara Huilcamán

fotografia di Lina Vergara Huilcamán

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“Sono nato a La Paz, da genitori italiani. Mio padre è medico pneumologo e in Bolivia curava i minatori all’epoca in cui nelle miniere si usavano gli uccellini per scoprire le fughe di gas. Da ragazzino stavo da solo a disegnare, non ero bravo a giocare a calcio, non potevo guardare la televisione se non Giochi senza frontiere d’estate e alcune videocassette scelte, non mi piacevano i soldatini e quindi non avevo parametri di vita sociale con gli altri bambini. Ci ho sofferto molto, perché non avevo riscontri, mi capitava di scoprire la meraviglia di usare gli acquerelli e a nessuno dei miei compagni interessava minimamente. Ma pur avendo sofferto la diversità, nel tempo ho imparato ad apprezzare l’educazione severa che mi hanno dato i miei genitori. Quando a sette anni iniziai ad andare a catechismo, per me fu una cosa molto negativa, credo ci siano caratteristiche dei bambini che vengono molto interpretate, e non analizzate per quello che in realtà sono, e io sentivo che non mi insegnavano cose positive. Mi parlavano dei martiri, tutti quelli che avevano fatto del bene e finivano male, sbranati, torturati, bruciati. Rimasi scioccato quando mi fecero vedere il film di Gesù, quello famoso, con gente inchiodata viva, madri che piangono, in cui Gesù viene torturato senza ragione, non perché ha fatto qualcosa di male… mi avevano insegnato che solo un’azione cattiva poteva comportare una conseguenza negativa… e io vivevo a Crema, non guardavo il telegiornale, ascoltavo le storie di mio nonno che era stato in campo di concentramento vivendole come racconti, pensavo che mio nonno fosse nato vecchio, non ho mai pensato che fosse stato giovane. Quello che mi spaventava (e mi spaventa tuttora a pensarci bene) era la contraddizione tra la vita che facevo e quella che mi presentavano, che era successa e stava succedendo. ‘Qual è il meccanismo logico che permette a me di vivere bene e ad altre persone no?’ mi chiedevo. Il bambino si rifugia nella logica, in quello che sa, in quello che gli hanno insegnato.
Sempre a sette anni ho iniziato a disegnare, mio padre mi portò a vedere una mostra di un illustratore di cui non ricordo il nome e nemmeno di dove fosse, ma per me fu come un fulmine! E tornato a casa iniziai a disegnare. Ho trovato nel disegno una via di fuga, molto probabilmente non ho mai accettato la realtà e le contraddizioni in cui vivevo e vivo. Ancora adesso certe cose mi fanno molto soffrire, non riesco proprio a capire. Quando ho preso per la prima volta l’aereo mi sono commosso… se l’essere umano ha inventato un modo per volare… mi sembra assurdo che non possa trovare un modo per poter evitare tutta una serie di cose terribili che quotidianamente accadono… I miei genitori mi hanno insegnato che volere è potere e io ci credo. Quello che sento non è una conseguenza di uno stile di vita o di una logica di vita, ma è una cosa che si accende. Io non posso sopportare di vedere gente che crepa in mare, ogni giorno… non parlo di eliminare la fame nel mondo, ma di piccole cose che basterebbe poco a evitare. Prima di salire su quel primo aereo pensavo che la gente non potesse, non che non volesse. Dio non esiste. Dio sta nella bontà delle persone, si dice in un film di Bergman e io ci credo alla bontà delle persone, credo molto nel riscatto intelligente di una persona. Ho lavorato come falegname alla Scala di Milano per un anno. Non avevo mai sentito cento strumenti suonare insieme, e se senti cento oggetti che non hanno nessun tipo di tecnologia ma che sfregano, battono, soffiano e pensi a cosa è in grado di partorire il cervello umano, non puoi essere cinico. Vedo sempre le cose con estremo stupore anche all’opposto, in senso negativo. Non mi stupisco se c’è un attentato, so che l’uomo fa certe cose. Se a un amico muore il nonno io gli dico che è normale, che è un fatto biologico che una persona di ottant’anni muoia. Per me molte delle cose che fanno soffrire la gente sono normali perché fanno parte di un ciclo vitale, ma quando sono stato allo ZEN 2 di Palermo mi sono chiesto come sia possibile che in Italia, in Europa, in un paese occidentale, tecnologico, con una buona sanità se paragonata all’America, ci siano delle periferie di ventimila abitanti con montagne di spazzatura alte quattro metri al posto dei giardini pubblici, macchine incendiate, carcasse di animali, in cui la notte senti abbaiare i cani dei combattimenti a cui assistono anche i bambini per i quali l’educazione scolastica non è considerata importante al punto che molti non finiscono nemmeno le scuole medie… e nessuno fa niente. Ho viaggiato molto. Ho lavorato anche nelle favelas in Brasile… ho visto realtà che non hanno mai trovato una corrispondenza, una continuità e una ragione di esistere con ciò che mi è stato insegnato. È una contraddizione, un assurdo che ci sia gente a questo mondo che crepa perché non ha un’aspirina, un antibiotico o perché non ha il pozzo dell’acqua vicino a casa.
Quando sono stato chiamato a Messina per fare un muro sul mare ho pensato a quale potesse  essere il suo significato per la città. TRE COSE. UNA. Il mare a Messina sono le feluche, imbarcazioni tradizionali per pescare il pesce spada in cui un uomo avvista il pesce dall’alto e dà indicazione all’altro per arpionarlo. DUE. Il mare a Messina sono Scilla e Cariddi dell’Odissea di Omero, due mostri, uno siciliano e uno calabro, che agitavano l’acqua creando correnti sottomarine per non fare passare nessuno. TRE. Il mare a Messina sono anche i migranti. La gente che muore in mare. Avrei potuto rappresentare tre macro cose e ho deciso di rappresentare quella più attuale. Sono polemico, certe cose non mi vanno bene e cerco quindi di disegnarle. Cosa sono questi naufraghi per la società in cui viviamo? Ogni volta si discute di tutto tranne che della loro morte. Fermiamoli qua, fermiamoli là, ci tolgono il lavoro… senza mai discutere del fatto che queste persone annegano e su come evitare che continuino ad annegare. Allora ho immaginato cosa potrebbe farne la società di questi corpi che raccoglie in mare, una società che discute di tutto tranne che della loro morte. Molto probabilmente prenderebbe queste persone e le metterebbe ad asciugare, perché penserebbe che l’unico problema dell’annegamento è che sono bagnati, non che sono morti, e quindi io le ho messe ad asciugare di fronte al mare.
C’è una grande ignoranza sulla street art, la gente comune come può essere mia madre che si interessa poco, o che legge solo i giornali, è molto fuorviata, i muralisti come quelli messicani e Rivera non sono street artist. La street art è la più completa e la più totale anarchia di pensiero e di creazione che una persona possa avere. Per me è il più grande movimento della storia, perché non ha limiti. Posso riempire la facciata di un palazzo di finestre dipinte, e metterci una porta. Posso trasformare il pavimento, il soffitto e fare diventare un comignolo un’altra cosa. Posso interagire con la luce del sole in una determinata ora di una determinata stagione. Per me la street art è L’INTERAZIONE tra l’artista e l’urbano. Una cosa che ho scoperto facendo street art è che io adoro la casualità. La casualità è una cosa molto importante in un progetto e si verifica proprio nell’interazione tra le persone e la mia opera d’arte. Io metto una cosa lì e la gente può modificarla, coprirla, migliorarla. Credo molto nell’interazione e nella compartecipazione a un risultato artistico. E credo molto nel disegno: una delle più grandi forme di riscatto e di educazione nel mondo. Con il disegno si può fare qualsiasi cosa. Il disegno è il disegno. È immediato. Una delle prime forme di comunicazione dei bambini è il disegno. I primitivi disegnavano per comunicare e per educare. Le prime lettere erano disegni. Uno scritto invece dipende dalla lingua, dalla forma e richiede una certa cultura.”
(Nemo’s perché in latino significa “nessuno” e quando disegno su strada la mia opera diventa di tutti o di nessuno, e anche per il personaggio Little Nemo di Winsor McCay.)                 
29 marzo 2016.