...navigando sul mare color del vino verso genti straniere...
(Omero, Odissea, L.I, v. 183)
Intorno al 1858 William Gladstone (che in seguito sarebbe diventato primo ministro del Regno Unito per ben quattro mandati), cominciò a rileggere per l’ennesima volta il suo libro preferito, l’Odissea. E un particolare che gli era sempre sfuggito gli balzò agli occhi tutt’a un tratto: il mare era sempre descritto come “viola”, o “color del vino”. Strano, pensò.
Ma non era l’unico esempio di un uso peculiare dei colori. Per Omero anche il metallo delle spade o delle armature era viola, e in un caso addirittura le pecore! Il miele era invece associato al verde. Non si trattava certo di licenze poetiche, perché ricorrevano troppo spesso. Gladstone dedusse che Omero, se non era davvero cieco come si racconta, doveva perlomeno soffrire di daltonismo.
Si mise a contare tutti i riferimenti ai colori presenti nell’Odissea: il nero compariva 200 volte, il bianco circa 100, il rosso meno di 15 volte e il giallo meno di 10. Ma, analizzando svariati componimenti poetici risalenti all’epoca classica, si accorse che anche per altri scrittori ellenici il concetto dei colori sembrava diverso dal nostro: forse che i Greci erano tutti daltonici?
Forse il mistero più grande, però, era che tra tutti i colori non veniva mai menzionato il blu.
Il filologo tedesco Lazarus Geiger, intrigato dal lavoro di Gladstone, decise di continuare ad analizzare le idiosincrasie nel linguaggio sui colori. Studiò la Bibbia ebraica, gli Avesta zoroastriani, i Veda, le saghe nordiche, gli antichi testi cinesi e coreani e scoprì che il blu non era mai menzionato. La cosa era ancora più incredibile visto che nel Corano, nella Bibbia e nella maggioranza dei testi sacri veniva spesso descritto minuziosamente un paradiso celeste – sempre senza fare cenno al colore turchino.
Il blu, agli occhi degli antichi, non esisteva. Non avevano nemmeno una parola per definirlo.
Geiger si accorse che tutte le diverse culture, per quanto distanti nel tempo e nello spazio, avevano sviluppato il linguaggio dei colori seguendo quasi sempre il medesimo ordine, lo stesso schema.
Nel lessico delle culture più primitive compare soltanto la distinzione fra bianco e nero (luce e oscurità). In seguito, il primo vero colore a essere “riconosciuto” è il rosso, il colore del sangue e del vino, seguito dal giallo. Democrito e i Pitagorici per descrivere la natura usavano esclusivamente questa scala di quattro fondamentali – bianco, giallo, rosso, nero. Il verde comincia a distinguersi dal giallo solo in epoca successiva, quando il linguaggio acquista complessità. Il blu è l’acquisizione più recente, fra i colori principali, ecco perché Omero non vi fa cenno.
La gerarchia dei colori di Geiger, pubblicata nel 1880 e a lungo dimenticata, venne riconosciuta come uno fra i più grandi e importanti contributi alla linguistica soltanto alla fine degli anni Sessanta. Dimostrava che il modo in cui ogni cultura descrive il mondo non è arbitrario, ma segue uno stesso pattern, che sembra quasi “anatomicamente” intrinseco all’essere umano. Mano a mano che si sviluppa il linguaggio, dunque il pensiero, si accresce la nostra capacità di distinguere le sfumature della realtà, e di raccontarle. “Quale potrebbe essere – si chiedeva Geiger – lo stato psicologico di un popolo che descrive il cielo soltanto come nero? La differenza fra loro e noi sta soltanto nella nomenclatura, o nella percezione stessa?”
La prossima volta che guardate il cielo durante una giornata limpida, chiedetevi come lo vedreste se nessuno vi avesse mai insegnato che è blu...