Fausto Gazzi
Fotografia di Lina Vergara Huilcamán
Non ricordo quando ho iniziato esattamente. Nei primi anni dell’infanzia ero già un raccoglitore accanito. Raccoglitore di tutto ciò che può trovare un bambino di campagna, perché è in campagna che sono cresciuto, ed è qui che si è sviluppato il mio senso della meraviglia. Era la coda della civiltà contadina e c’erano nonne fantastiche che ti raccontavano cose incredibili legate alla natura e alle storie che avevano vissuto. E io raccoglievo tutto ciò che si poteva raccogliere nelle campagne allora: stranezze della natura, oggetti archeologici, monete, ordigni di guerra... Avevo già il mio museo a sette/otto anni: abitando in campagna gli spazi c’erano e molte cose di quegli anni le conservo ancora. Ero particolarmente appassionato di teschi. Non so perché. E lì, avendo anche il cimitero vicino, da bambini andavamo a vedere le esumazioni. Era normale. I becchini erano personaggi del paese. Allora, poi, uno scheletro non stuzzicava il gusto del proibito, giacché era normale vedere cose molto più truculente come l’uccisione di un maiale. A quei tempi eravamo sottoposti a traumi che adesso non esistono più, non saprei dire se sia una fortuna o un peccato. Oggi la vista della nonna che al sabato tira il collo a una gallina mi farebbe inorridire ma allora faceva parte del circo e non riuscivamo a staccare gli occhi da questa scena cruenta che, pur terrorizzandoci, ci affascinava. Per gli animali non c’era alcun rispetto. Se un cane si ammalava aveva solo due possibilità: vivere o morire. Adesso spenderemmo migliaia di euro per guarirlo, mentre a quei tempi lo lasciavi lì, anche se era il cane della tua vita. C’era un’altra mentalità. Non c’erano i veterinari. Ma il senso dell’orrore esisteva allora come adesso, solo che adesso i bambini ne fanno esperienza attraverso i film, mentre a quel tempo lo provavamo dal vero, ed è tutta un’altra storia. Il mondo della campagna con i suoi misteri e le sue storie ha segnato l’inizio di questa mia passione. Da piccolo, ho potuto sviluppare un senso dell’avventura che adesso i nostri bambini non possono avere. C’era una totale libertà. Il tempo era a nostra disposizione e potevamo farne ciò che volevamo, senza alcun controllo. Ricordo che in paese c’era la villa di campagna di una famiglia nobile veneziana, piena zeppa di cose che risalivano fino al Settecento. Era rimasta chiusa dopo la morte dell’ultimo discendente: una pittrice pazza (perché sai, a causa delle unioni tra consanguinei, i nobili erano davvero tutti pazzi) che soffriva forse di una sindrome compulsiva che l’aveva portata ad accumulare una grande quantità di cose fino a trasformare l’enorme villa in una wunderkammer. Per noi bambini si trattava di fare un buco nella porta ed entrare nel paese dei balocchi. Lì dentro trovavamo tutto quello che si può trovare in una camera delle meraviglie e ce lo portavamo via. Rubavamo. Quando se ne accorsero era troppo tardi, avevamo già saccheggiato la villa. Fu così che sviluppai la passione per l’antiquariato. Successivamente, andando a scuola, aggiunsi la teoria alla pratica. Mi iscrissi al liceo artistico a Ferrara e quegli studi mi diedero l’opportunità di visitare collezioni pubbliche e private, anche chiuse al pubblico. Qualche insegnante illuminato ci accompagnava, e devo dire che quanto ho visto nei depositi dei musei italiani è incredibile. In Italia l’oggetto del mio interesse è considerato arte minore. Diversamente da quanto accade all’estero, il nostro Paese ha sempre fatto una distinzione tra l’arte vera e propria e le arti minori e queste ultime, in Italia, sono protagoniste di immense collezioni nascoste al pubblico. Negli anni Settanta, a Venezia, c’è stata una bellissima mostra di un’artista di cui ora non ricordo il nome e che aveva iniziato a lavorare sugli armadi delle meraviglie; e sempre a Venezia, negli anni Ottanta, nel periodo in cui iniziai a studiare architettura, ci fu una biennale curata dalla famosa Adalgisa Lugli che pubblicò bellissimi libri sulle wunderkammer. È stata lei ad avviare gli studi sui gabinetti delle meraviglie, dando impulso a un lavoro di ricerca e a una passione che hanno coinvolto molte altre persone fino ai giorni nostri. Gli antiquari iniziarono a cercare questi oggetti e a portarli nei mercati. Negli anni Novanta, sebbene il lavoro che facevo all’epoca mi piacesse e mi desse grandi soddisfazioni, decisi che volevo seguire la mia passione e mi buttai. Aprii la mia prima ditta che chiamai Naturalia Artificialia. Stavano nascendo i primi shop museali, perciò creai una piccola collezione che proposi ai musei scientifici: si trattava di riproduzioni che spaziavano da conchiglie e coralli montati su basi decorative a strumenti scientifici. Riscossi un certo successo ma dopo averne venduto qualche container arrivarono i cinesi (c’erano già allora) e mi contattarono proponendomi una collaborazione che mi avrebbe garantito un risparmio del 40%. Rifiutai, e loro andarono avanti lo stesso estromettendomi dal mercato. Parallelamente avevo già iniziato ad acquistare. Era arrivato Internet, uno strumento prezioso per reperire sia informazioni sia contatti. Mi misi a trafficare (è il termine più corretto da usare in questo caso) e su eBay iniziai un’intensa attività di vendita che mi portò a conoscere Alessandro (Molinengo)* da cui acquistai un po’ di cose. A quel tempo noi appassionati di questo genere eravamo pochi e sparsi e io cercavo un complice, perciò, nonostante le centinaia di chilometri che ci separavano, avviammo una collaborazione commerciale. Possedevo già una grossa collezione, avevo affittato un ampio negozio e l’avevo arredato con tutte le mie cose che mi gustavo da solo. Non volevo nessuno dentro. Ma a un certo punto mi chiesi quale fosse il mio scopo e ne parlai con Alessandro, che mi propose di fare insieme qualcosa a Torino. Le Olimpiadi erano imminenti e la città si era trasformata: c’era molto movimento, e trovammo un piccolo negozio in centro dove portai la mia collezione. Così creammo il Nautilus: era iniziata una nuova avventura. Girammo l’Europa e in quel periodo trovammo una grande quantità di cose fantastiche. Forse è una questione di cicli storici, non lo so, ma ora questo miracolo non accade più, o perché i collezionisti con Internet (purtroppo o per fortuna) arrivano all’acquisto prima ancora che il pezzo sia esposto, o perché oramai non c’è più niente che possa sorprendermi veramente. Adesso mi piacciono gli oggetti che abbiano un contenuto intellettuale ma in rapporto con la natura, ho una collezione di coquillages che va dal Seicento fino ai primi anni del Novecento. Come ad esempio questo busto con le conchiglie nello stile di Arcimboldo, l’unico e il primo che abbia mai visto (ne avrò visti due o tre ma si trattava di riproduzioni recenti e ce n’erano un paio nei musei) e trovarlo mi ha emozionato. Arcimboldo ci ha insegnato a sviluppare questo senso della meraviglia attraverso un oggetto rivisto in un altro modo, decontestualizzato. Purtroppo in giro c’è poca roba di questo genere. Mi piacciono sempre gli strumenti scientifici che tra l’altro restauro, ma li tengo per me stesso. Amo i crani umani, anche se ormai sono diventati una moda. Ho seguito e coltivato la mia passione e ne ho ricevuto in cambio enormi soddisfazioni. Ho visto cose che voi umani... (ride). Paolo Brenni a Firenze mi ha permesso di visitare le collezioni dell’Istituto Tecnico Toscano che, chiuso dopo la guerra, è rimasto cristallizzato al 1800. Risparmiato da più di una guerra, non è stato depredato e ogni cosa si è conservata in perfette condizioni. Contiene collezioni straordinarie, tutte chiuse al pubblico salvo una piccola mostra con qualche selezione di pezzi. Ho visto i vetri dei fratelli Leopold e Rudolf Blaschka. Meduse, coralli, animali invertebrati di vetro, e altre – tante! – cose fantastiche. I musei sono sempre stati estremamente disponibili ad aprirmi le loro porte e sono riuscito a visitarli tutti tranne uno: il Rizzoli di Bologna, che ha una collezione nascosta in un’ala del Cinque/Seicento facente parte dell’ospedale originario, quello sui colli. Credo che la collezione sia intitolata a Vittorio Dotti, un luminare che aveva iniziato a collezionare strumenti medicali già all’inizio del Novecento, comprava da Christie’s e comprava oggetti del Rinascimento. Cose incredibili. Esiste un piccolo catalogo edito da Clueb dove si intravvedono questi pezzi. Quando andai al Rizzoli nessuno sapeva di questo museo e mi mandarono in biblioteca, anche questa piena di tesori: tavole anatomiche del Mascagni quasi a grandezza naturale, un libro enorme su un leggio barocco... cose meravigliose! Ma non ho avuto chance. Non mi hanno lasciato entrare. È stata l’unica volta che non sono riuscito ad accedere a una collezione.
Una bellissima avventura. Poi come in tutte le cose... è come quando mangi tutti i giorni i tortellini, alla fine si vuole cambiare, e io sono un tipo estremamente curioso, che passa da un tema all’altro. Ho sempre avuto la passione del design e la condanna del creativo, e con l’aiuto della manualità adesso mi dedico a realizzare i miei propri pezzi. Lavoro principalmente con gallerie francesi e con qualcuno di New York e di Los Angeles, ma quando torno a casa accendo il computer e spicco i miei voli.
Ci resta il rammarico di non avere più il Nautilus, ma possiamo dire di averlo avuto. Ero anche riuscito a trasferirlo a Modena, ma devo aver maneggiato qualche cranio sbagliato, perché la sera dell’inaugurazione coincise con il terremoto. Ora mi piacerebbe montare una quinta teatrale con i pezzi della collezione insieme alle mie opere. Vedremo. Mi sono sempre chiesto da dove venisse questo piacere per gli oggetti antichi, una passione che coltivo sin da bambino, senza alcun background culturale, perché la mia famiglia era una famiglia normale, vissuta in campagna, ma mettendo una cosa dietro l’altra alla fine tutto ha il suo senso.