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La mia Wunderkammer

di Bizzarro Bazar

Amo restare sveglio: la grande città si fa infine vincere dalla stanchezza, e posso quasi avvertire i sogni dei miei simili esalare dalle case, fino a formare un’immensa coperta, dai colori e dalle fantasie cangianti, che si stende sopra i tetti silenziosi. Capita allora, quando la notte già sta per tramutarsi in mattino, che io mi soffermi di fronte ai miei armadietti delle meraviglie. Vi trovano posto teschi umani e animali, gorgoni rosse e stelle marine, esemplari tassidermici e sotto liquido, antichi testi di anatomia patologica, stampe e incisioni che illustrano la crudeltà umana nei secoli (grande rimosso che vorremmo essere soltanto vestigio di un nostro passato bestiale, e che invece non ci ha mai abbandonato). E ancora fotografie pornografiche degli anni ‘20, vecchi strumenti medici, e tutta una serie di manufatti relativi all’intersezione fra sacro e macabro (calotte craniche istoriate, tibie trasformate in strumenti musicali, maschere mortuarie, arte funebre, fotografie post mortem, e via dicendo).
La mia collezione mi parla, con una sua voce particolare che è in realtà una moltitudine di voci. Ed è una tappa, uno strumento della ricerca che mi impegna da sempre.
Nonostante io possegga questa collezione, non mi sento affatto un collezionista. Mi manca la compulsività. Quello che amo negli oggetti che raccolgo è il fatto che siano densi di storia, di vita. Mi è capitato di conoscere collezionisti di cavatappi, di ferri da stiro, di maioliche, di barattoli di caffè; chi non condivide la loro stessa passione in capo a cinque minuti è vinto dalla noia. Ho imparato che un armadietto delle meraviglie, invece, non lascia indifferente nessuno. Le reazioni possono andare dal disgusto (molto più raro di quanto si pensi) allo stupore infantile, all’interesse di stampo scientifico, allo sdegno morale di fronte ad alcuni costumi che oggi ci sembrano discutibili: penso al cilicio di inizio ‘900, alle minuscole scarpette cinesi per piedi fasciati, alla cartolina souvenir, colorata a mano e datata 1907, in cui si vede un fiero colonialista inglese tenere in mano la testa di un giustiziato filippino. I bambini, dal canto loro, impazziscono per gli animali impagliati e per le ossa.
Ogni collezione è una sorta di mappa che rispecchia e descrive la personalità del collezionista, il suo gusto, le sue piccole manie.
Credo che sia stato Stefano Bessoni ad avermi insegnato – non a parole, ovviamente – che non ci si deve vergognare delle proprie ossessioni, bensì nutrirle con entusiasmo. E la sua incredibile wunderkammer è un’evidente oggettivazione della sua fantasia, una propaggine fisica del suo mondo interiore: possiede un meraviglioso e rigoroso disordine che la fa assomigliare all’impolverato bottino di un esploratore vittoriano, un po’ Livingstone e un po’ Darwin, e in cui lo sguardo si perde in mille dettagli affastellati.
La mia collezione, com’è ovvio, è differente, perché è mia. Una delle mie ossessioni è il rapporto dell’uomo con la morte, le barriere e i simboli che ha forgiato – in ogni epoca e in ogni latitudine – per sopportarne l’angoscia. Gli animali impagliati o mummificati cos’altro sono se non un tentativo di fermare il tempo e sconfiggere la putrefazione? In questi oggetti la meraviglia per il mondo e le forme naturali si mescola con una sotterranea paura del panta rei.
E sempre questo terrore della dissoluzione eterna, che svuoterebbe di senso le nostre esistenze, è visibile in filigrana dietro all’impulso ad analizzare, categorizzare, cartografare e infine controllare l’intero cosmo; sondare il nostro corpo per vincere le malattie e la vecchiaia; inventare divinità di ogni genere affinché ci assicurino che la suddetta dissoluzione non è veramente definitiva. E l’erotismo, che trova posto in una sezione dei miei armadietti, è la rappresentazione simbolica forse più intensa degli istinti legati alla morte.
Talvolta, nel silenzio, la mia wunderkammer mi pare un’astronave psichica. Enigmatico agglomerato di forme passeggere, coagulo di dolori e vite ritornate alla polvere, sguardo di meraviglia, mistero delle cose. Passiamo tutta la vita a esercitarci nell’impermanenza. Mettiamo il caso che domani dovessi perdere la mia intera collezione in un incendio: verserei qualche lacrima, certo, ma senza gridare e maledire il destino. Se lo facessi, dimostrerei di non aver compreso la lezione che la wunderkammer mi sussurra, delicatamente, ogni notte.

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