Alessandro Molinengo

Collezionista di stupore

di Lina Vergara Huilcamán

fotografia di Lina Vergara Huilcamán

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“Sin da piccolo raccoglievo qualsiasi cosa e portavo avanti tante collezioni parallele, sia quelle più scontate come monete e francobolli (che ho ereditato da mio papà), sia figurine di cui ero abbastanza maniaco, adesivi... ma poi, quando avevo 12/13 anni, a Cuneo, vicino a casa mia, c’era un mercatino di un’organizzazione che per beneficenza raccoglieva e vendeva oggetti, e lì trovavi di tutto e a prezzi molto molto bassi. Non era un mercato dell’antiquariato. Antiche sveglie, macinini... oggetti della cultura contadina. E ho iniziato a collezionare antichi ferri da stiro, forse perché a casa ne avevo due di mia nonna e quando hai almeno due oggetti la puoi già chiamare collezione. La collezione è cresciuta al punto da rendermi conosciuto a livello mondiale. Esistono circoli, fiere dedicate al ferro da stiro... è un filone molto ricco e dal punto di vista commerciale mi è servito per farmi le ossa e imparare a scambiare, vendere e capire le dinamiche di queste attività. Poi un giorno ho trovato un antico stetoscopio in legno a Cherasco, a un banchetto delle dame di carità. Mi ha incuriosito, l’ho studiato, l’ho messo in vendita e da li è nata la nuova passione. Mi sono specializzato in strumenti medico-chirurgici e ho incontrato Fausto Gazzi, collezionista come me. Fausto era più avanti e aveva una conoscenza vastissima e approfondita. Ci siamo contaminati a vicenda, io ero più sbilanciato sullo scientifico, lui sul naturalistico e alla fine siamo peggiorati tutti e due, abbiamo aggiunto alla nostra patologia quella dell’altro.
I collezionisti si dividono in due famiglie. Ci sono quelli che hanno un concetto molto solipsistico del godimento della collezione: ammassano, collezionano, ma non condividono con nessuno. E ci sono invece quelli come me e Fausto, per cui il piacere più grande è quello di poter condividere le proprie collezioni, piacere che ci ha portato nel 2010 ad aprire il Nautilus in centro a Torino, un negozio definito tale per “dare un alibi sociale” a questa nostra passione che all’epoca era ancora molto di nicchia. Chiaramente per poter finanziare la collezione il contrappasso è quello di dover vendere, anche se il collezionista per definizione acquista e non vende, ragion per cui il Nautilus non è mai stato un vero e proprio negozio, non c’è mai stato un orario definito, i prezzi cambiavano ogni settimana... ma ne siamo sempre stati gratificati perché si creavano relazioni che andavano oltre i rapporti meramente commerciali. Era un luogo di incontro per appassionati che condividevano oggetti. Un collezionista le mura le vive come un rifugio, un guscio dove ci sono gli oggetti che ama, è come il ragno che si costruisce la tela che lo protegge dal mondo e la collezione è la sua rappresentazione verso il mondo. Per me era un piacere incontrare le persone nel Nautilus, potevo effettivamente condividere quello che mi emozionava, sarebbe stato diverso farlo a un tavolino del bar.
Era una #wunderkammer, luogo privilegiato dove stupire ma trovare anche appagamento nel manifestare il proprio mondo interiore attraverso gli oggetti. Mi dicevano che il Nautilus sembrava un insieme di cose senza senso, forse perché mi innamoro di tante cose, ma è il collezionista stesso il filo conduttore che sta dietro a ogni collezione. Creavamo un dialogo tra gli oggetti, succede quando avvicini oggetti che non credi abbiano niente a che spartire e ne nasce un dialogo, si creano nuovi significati. Mescolavamo animali imbalsamati con elementi di archeologia industriale, modelli anatomici con le cere e preparati in formalina. Non esisteva una divisione per sezioni. Voleva essere un’esperienza, un qualcosa che era stato creato per trasmettere le nostre passioni. Mi divertiva osservare come ogni persona che entrava notava determinati oggetti invece che altri, come se ci fossero diversi livelli di lettura dettati anche dal momento. Così come mi divertiva ascoltare le conversazioni di quelli che dalla vetrina guardavano, commentavano e non entravano, pur incuriositi non si concedevano di vivere l’ignoto. Poi c’erano invece quelli che entravano e si lasciavano travolgere, e a me piace chiacchierare e raccontare vita morte e miracoli di ogni oggetto. Ogni oggetto è frutto di un viaggio di una situazione di un ricordo e dell’emozione del ritrovamento. Ogni pezzo della mia collezione, quando lo vedo, mi fa rivivere l’attimo del nostro incontro. È l’oggetto che viene a noi, io non ho velleità paranormali, però certi incontri erano predestinati: non dovevo essere lì e c’ero, e lui (l’oggetto) anche. Mi parlano sin dal ritrovamento, in un certo senso, e io parlo loro.
Il Nautilus era la nostra stanza delle meraviglie. La wunderkammer quando nasce si basa sullo stupore, non ha un approccio sistematico. In essa c’è una dimensione dell’ammasso. La stratificazione, l’accumulo mi emozionano! È con l’illuminismo, nel settecento, che si smembrano le collezioni e le stanze delle meraviglie che mescolavano scienza, natura, #mirabilia... vengono divise nei vari musei e collocate nelle vetrine asettiche che ben conosciamo, interrompendo e tagliando i fili del dialogo creato dal collezionista.
L’ERA DELLA RAGIONE riporta l’ordine in quello che non era più accettabile come criterio: lo stupore nato dalla non conoscenza. Prima l’uomo si stupiva di fronte all’uovo di struzzo (in Europa c’erano solo le galline) poi l’illuminismo dice “è solo stupore” e te lo spiega, te lo mette nel museo di scienze naturali e non più sulla testa di una madonna, ed ecco che l’uovo di struzzo è solo un uovo un po’ più grande di quello della gallina. Si potrebbe dire che l’illuminismo è l’assassino dello stupore e della meraviglia. Assassino della curiosità. Non c’è lo stimolo a crearsi la propria conoscenza: è già proposta. Trovare un negozio che offre qualcosa che non si conosce, in un ordine diverso, crea la discussione, perché richiede lo sforzo di aprirsi a un approccio nuovo. L’illuminismo era legato al rifiuto di tutto ciò che era più istintivo, se lo puoi incasellare esiste, se non lo puoi incasellare... Nell’anima? Ci credo. Credo in una dimensione interiore che mi rende umano, non solo esperienza. E credo che l’anima dell’oggetto risieda nella sua storia, un flusso che l’ha portato fino a me. Delle mani lo hanno creato, protetto, custodito, hanno cercato di distruggerlo... e lui nonostante tutto ha resistito fino a trovare me.
Ora mi dedico alla mia passione più recente: gli EX VOTO, che mi hanno molto coinvolto e a cui dedico principalmente le mie ricerche. Mi piace la dimensione del sacro dal punto di vista artistico ma declinata secondo il gusto popolare, la rappresentazione di un gesto di fede genuino, innocente forse, in cui è presente la dimensione della meraviglia e in cui si riesce a cogliere lo stupore di fronte a quello che viene ritenuto un miracolo e la condivisione di questo miracolo con la comunità. Ci sono miracoli di tutti i tipi. Ad esempio quelli legati alla malattia, ma i più affascinanti per me sono quelli connessi agli incidenti: il taglialegna che viene travolto dal tronco ma non muore, il bambino che sarebbe dovuto affogare, il fedele che si salva per intervento del miracolo... Così il fedele fa dipingere questo voto in modo che tutti sappiano che la Madonna l’ha salvato. Gli EX VOTO costituiscono un’espressione artistica emozionante, anche se per anni sono stati bistrattati e per la Chiesa sono quasi da nascondere perché considerati borderline e connessi con il paganesimo. La Chiesa appena poteva li buttava, bruciava o li vendeva ai rigattieri. Anche la critica non ha mai riconosciuto loro un valore artistico. Sono infatti dipinti nel migliore dei casi da pittori di paese che si specializzavano, ma sempre con una mano molto infelice, altre volte sono opera del miracolato stesso che senza pudore realizzava questi quadri con totale disprezzo per la prospettiva e le proporzioni. Nei santuari se ne trovano intere pareti. V.F.G.R. (Voto Fatto Grazia Ricevuta). P.G.R. (Per Grazia Ricevuta). Adesso ne ho 150. I miei preferiti li ho appesi ai muri ma lo spazio è limitato e gli altri li accumulo dentro gli armadi. C’è anche tutto il filone delle parti anatomiche, una forma più economica perché prodotta in serie e stampata, venduta nelle bancarelle. Frida Kahlo e Diego Rivera collezionavano EX VOTO, è una tradizione fortissima in Messico.
In realtà il posto degli EX VOTO sarebbe nelle chiese, nel momento in cui ne porti via uno è come se spezzassi il legame che era stato creato, ma poiché il parroco è obbligato a esporre tutti gli EX VOTO che i fedeli portano in chiesa, quando lo spazio finisce deve togliere i più vecchi ed esporre i nuovi. Così nelle chiese adesso ci sono quelli più recenti, e quelli più preziosi perché più antichi sono andati persi. Coesistono in me la consapevolezza data dalla maturità, che porta con sé un certo cinismo, e la capacità di appassionarsi a certi oggetti con lo stupore che hanno solo i bambini che si lasciano incantare da un mondo sconosciuto (Senex Puerilis). Il collezionista è alla ricerca di un’esperienza che lo tolga dal quotidiano, così quando alle sei del mattino vedo posare per terra in un mercatino un EX VOTO, per me è un’epifania, una rivelazione! Come quando da bambino aprivo un pacchetto di figurine. Un’altra componente fondamentale del mio essere collezionista è la missione salvifica, ovvero il desiderio di sottrarre in qualche modo al tempo e all’oblio gli oggetti che amo. Sto male se penso alle migliaia di EX VOTO che sono stati buttati o bruciati, e in un certo senso è come se li salvassi. Me ne prenderò cura. Li condividerò con altri appassionati. Sottrarre al tempo l’oggetto è una delle fonti di profondo appagamento del collezionista. E quando non ci sarò più... se sarò fortunato mi guadagnerò l’eternità con la mia collezione, una delle destinazioni migliori sarebbe il museo, l’esposizione pubblica, oppure, ed è una delle sofferenze più grandi, la mia collezione verrà data al primo antiquario rapace di turno che dopo averla comprata la smembrerà.”

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