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Nel mare ci sono i coccodrilli

Storia vera di Enaiatollah Akbari

di Fabio Geda

Il fatto, ecco, il fatto è che non me l’aspettavo che lei andasse via davvero. Non è che a dieci anni, addormentandoti la sera, una sera come tante, né più oscura, né più stellata, né più silenziosa o puzzolente di altre, con i canti dei muezzin, gli stessi di sempre, gli stessi ovunque a chiamare la preghiera dalla punta dei minareti, non è che a dieci anni – e dico dieci tanto per dire, perché non è che so con certezza quando sono nato, non c’è anagrafe o altro nella provincia di Ghazni – dicevo, non è che a dieci anni, anche se tua madre, prima di addormentarti, ti ha preso la testa e se l’è stretta al petto per un tempo lungo, più lungo del solito, e ha detto:
Tre cose non devi mai fare nella vita, Enaiat jan, per nessun motivo. La prima è usare le droghe. Ce ne sono che hanno un odore e un sapore buono e ti sussurrano alle orecchie che sapranno farti stare meglio di come tu potrai mai stare senza di loro. Non credergli. Promettimi che non lo farai.
Promesso.
La seconda è usare le armi. Anche se qualcuno farà del male alla tua memoria, ai tuoi ricordi o ai tuoi affetti, insultando Dio, la terra, gli uomini, promettimi che la tua mano non si stringerà mai attorno a una pistola, a un coltello, a una pietra e neppure intorno a un mestolo di legno per il qhorma palaw, se quel mestolo di legno serve a ferire un uomo. Promettilo.
Promesso.
La terza è rubare. Ciò che è tuo ti appartiene, ciò che non è tuo no. I soldi che ti servono li guadagnerai lavorando, anche se il lavoro sarà faticoso. E non trufferai mai nessuno, Enaiat jan, vero? Sarai ospitale e tollerante con tutti. Promettimi che lo farai.
Promesso.
Ecco. Anche se tua madre dice cose come queste e poi, alzando lo sguardo in direzione della finestra, comincia a parlare di sogni senza smettere di solleticarti il collo, di sogni come la luna, alla cui luce è possibile mangiare, la sera, e di desideri – che un desiderio bisogna sempre averlo davanti agli occhi, come un asino una carota, e che è nel tentativo di soddisfare i nostri desideri che troviamo la forza di rialzarci, e che se un desiderio, qualunque sia, lo si tiene in alto, a una spanna dalla fronte, allora di vivere varrà sempre la pena – be’, anche se tua madre, mentre ti aiuta a dormire, dice tutte queste cose con una voce bassa e strana, che ti riscalda le mani come brace, e riempie il silenzio di parole, lei che è sempre stata così asciutta e svelta per tenere dietro alla vita, anche in quell’occasione è difficile pensare che ciò che ti sta dicendo sia: Khoda negahdar, addio.

Così.

La mattina, quando mi sono svegliato, ho allungato le braccia per far uscire il mio corpo dal sonno e ho tastato a destra per cercare fiducia nel corpo di mamma, nell’odore rassicurante della sua pelle che per me era come dire: sveglia, alzati eccetera. Ma sotto il palmo non ho trovato nulla e, tra le dita, solo la coperta di cotone bianco. L’ho tirata verso di me. Mi sono voltato, gli occhi spalancati. Mi sono puntellato sui gomiti e ho provato a chiamare: Mamma. Ma lei non ha risposto e nessuno ha risposto al posto suo. Non era sul materasso, non era nel salone dove avevamo dormito, ancora caldo dei corpi che si rigiravano nella penombra, non era sulla porta, non era vicino alla finestra a osservare la strada trafficata di auto e carri e bici, non era a parlare con qualcuno, come aveva fatto spesso, durante quei tre giorni, nei pressi delle brocche d’acqua o nell’angolo dei fumatori.
Da fuori arrivava il frastuono di Quetta, che è molto, molto più rumorosa del mio piccolo paese, quella striscia di terra, case e torrenti da cui provengo, il posto più bello del mondo (e non lo dico per vantarmi, ma perché è vero), nella provincia di Ghazni.
Piccolo, grande.
Non ho pensato che fosse la grandezza della città a causare quel baccano, credevo si trattasse di normali differenze tra nazioni, come il modo di condire la carne. Ho pensato che il rumore del Pakistan fosse diverso da quello dell’Afghanistan, punto, e che ogni nazione avesse il proprio rumore, che dipendeva da un sacco di cose, tipo da cosa mangiava la gente e da come si muoveva.
Mamma, ho chiamato.
Nessuna risposta. Allora sono uscito da sotto le coperte, mi sono infilato le scarpe, ho stropicciato gli occhi e sono andato a cercare il padrone che comandava quel posto per chiedere se l’avesse vista, dato che, appena arrivati, tre giorni prima, aveva detto che nessuno entrava o usciva dal samavat Qgazi senza che lui se ne accorgesse, cosa che a me era sembrata strana, perché supponevo che anche lui avesse bisogno di dormire, di tanto in tanto.
Il sole tagliava in due l’ingresso del samavat Qgazi. Da quelle parti li chiamano anche hotel, i posti così, ma non assomigliano nemmeno un po’ agli hotel che voi avete in mente, no, no. Più che un hotel, il samavat Qgazi era un magazzino di corpi e anime; un deposito dove stiparsi in attesa di essere impacchettati e spediti in Iran o in Afghanistan, o chissà dove; un posto per entrare in contatto con i trafficanti di uomini.
Nel samavat c’eravamo rimasti tre giorni, senza mai uscire: io a giocare tra i cuscini, mamma a parlare con gruppi di donne con bambini, a volte con intere famiglie, persone di cui sembrava fidarsi.
Ricordo che per tutto il tempo, lì a Quetta, mamma ha tenuto viso e corpo infagottati dentro il burqa; il burqa che lei, a casa nostra, a Nava, con la zia e con le sue amiche, non portava mai. Non sapevo neppure che ne avesse uno. Alla frontiera, la prima volta che gliel’ho visto indossare, le ho chiesto perché e lei ha detto sorridendo: È un gioco, Enaiat, vieni qua sotto. Ha sollevato un lembo del vestito. Mi sono infilato tra le sue gambe sotto la stoffa azzurra, come un tuffo in piscina, e ho trattenuto il respiro, ma senza nuotare.

NEL MARE CI SONO I COCCODRILLI 
di Fabio Geda
B.C. Dalai editore