Era un’estate infinitamente calma, quando la mia famiglia decise di trascorrere alcune settimane nella dolce campagna emiliana. Io ero l’unica nipote di una famiglia accogliente e affettuosa. Ero quindi molto amata e spesso sola.
Così la mia fantasia vagava, in quel tempo dilatato che la noia rende eterno e immutato, lontanissimo dal divenire e dalla frenesia di oggi. C’era solo l’essere, umano e bambino.
Pur non avendo una personalità tassonomica, imparai a distinguere i merli dai fringuelli, i ciuffolotti dai pettirossi, le gazze, i verdoni, le upupe e i chiù. Le giornate trascorrevano dolci e dorate, mentre io addomesticavo la noia tra i crescioni e le margherite. L’infanzia sembrava non dovesse finire mai.
Sotto l’ombra certa della magnolia lasciavo passare le prime ore del pomeriggio, stordita dalla digestione e dall’immobilità della siesta. La neclensia, ripeteva mia nonna, non è un fiore ma una noia capricciosa, e così in un pomeriggio di questi, seguendo una mappa di minuscoli indizi di cellulosa, passai dietro all’acetaia, superai lo stagno con i suoi putridi segreti e raggiunsi il piccolo roseto. Era vietato e naturalmente ci entrai.
In quel luogo nascosto tra due fila di siepi, potevo starmene al riparo dalla calura di agosto e dagli sguardi di tutti. Il roseto nascondeva incredibili meraviglie.
Gli insetti ronzanti a volte erano fatine mascherate, altre piccole spie insidiose, altre ancora semplicemente le api vellutate di mio nonno. In questo stato di trasognamento seguivo il viavai frenetico delle operaie, instancabili e fidate, e le mie fantasie volavano come insetti, avevo pensieri con le ali.
L’ultimo giorno di vacanza il nonno, al corrente dei miei passatempi che alimentava spesso con storie fantastiche, come quella della principessa caduta nel tino, mi mostrò una cosa che aveva trovato la mattina nell’orto. Si trattava di un giovane furetto, dal manto bianco e fulvo, morto da poco senza turbamenti, morbidissimo. Lo mise in un barattolo di vetro e promise solennemente di lasciarlo nel roseto fino al mio ritorno, sotto la rosa più bella.
Era una sera di fine estate e la pace regnava nell’aria pregna d’odor di miele.
La domenica successiva tornammo in campagna, come promesso. Il nonno mi aspettava vicino al portone, per non tradire il nostro segreto, con le gote rosse come il lambrusco che versava di nascosto nel mio bicchiere, per farmi ridere e farsi amare più di tutti.
Così corsi subito nel roseto dal mio piccolo amico, mentre le cicale – assordanti – si erano come ammutolite, arrestate per un attimo tetro, non adatto al loro umore. Mi sembrò strano, ma a volte non vogliamo vedere.
Non ero affascinata dalla morte, ma dalla trasformazione. Non capivo come dentro al barattolo potessero essere entrati tanti vermi, affamati e bianchi. Il barattolo era ben chiuso e il nonno non lo avrebbe mai aperto. Non riuscivo a capacitarmi che venissero da lui, che era bellissimo e soffice. Parevano golosi e insaziabili.
Una scoperta sconvolgente, ma il furetto era magnifico ora e pieno di fascino.
E fu esattamente così, aspettando l’ora della merenda, che mi avvicinai all’incredibile mistero della vita.