Prendendo spunto dal romanzo di Gerard Durrell, i poeti sono stati invitati a usare i propri versi per guardare agli esseri umani, animali e vegetali facenti parte di un paesaggio infantile, sia esso ricordato o immaginato. Leila Falà analizza con lucida spietatezza l’evolversi di un rapporto tra sorelle in cui a rimanere costanti nel tempo sono le gelosie e la competizione. Con i suoi versi semplici e incisivi, Flavio Scaloni offre il vivido ritratto di una vicina verso la quale proviamo istintivamente un senso di familiarità. Chiara Baldini, nel suo breve componimento, fotografa sapientemente un momento di delicata intimità tra umano e animale mentre Antonella Troisi dipinge una gustosa scena contadina che si chiude con la paziente accettazione delle leggi della natura. Con quella punta di affettuoso umorismo che lo contraddistingue, Paolo Polvani esprime il suo rimorso per l’uccisione di uno scorpioncino mentre nel notturno intensamente lirico di Alessandro Silva un ragazzo e un serpente condividono un momento di consapevolezza alla luce delle lucciole.
Ci crederesti piccolo peso
che mentre sul petto mio
tu pigi l’uva
(e io quasi per scherzo
uva più matura bevo)
vorrei null’altro all’istante
che sapere la vita essere tutta
qui?
Noi due in una polaroid.
-Le stelle non valgono nulla-. Disse e
spuntò tra i rami e i capelli un serpente.
Rispose il giovane uomo. -Lo so. Quando
si fece il giusto momento sull’orlo
di un prato morto di luce restai.
Fissavo smarrito e c’eri anche tu
e di quello stesso strazio soffrivi,
serpente. Qualcuno ci mise negli occhi
la vita che in sorte ci stava aspettando-.
Fu poi un’ubriachezza di lucciole
che li addormentò.
Nel palazzo di fronte
abita una vecchina dolcissima
che tutti chiamano ‘la pazza’.
La sera beve il vino in cartone
e urla dalla finestra
‘Puttaaaaaaaaana!’
‘Puttaaaaaaaaana!’
‘Putta, putta, puttaaaaaaaana!’
battendo con una mano
sulla serranda di legno.
Hanno chiamato il medico
che le ha dato i sedativi.
Poi è morta.
Tronchi accatastati nell’aia
son lì per farne legna da ardere
una vecchietta dalle gambe deboli e insicure
vi si poggia e lentamente si siede
sparge chicchi di grano tutt’intorno
dove accorrono polli e galline
c’è qualcuno non invitato
una volpe dallo sguardo inquietante
“i miei piccoli devono mangiare”
- sembra voler dire -
e in men che non si dica
agguanta una gallina e corre via
non dà tempo di gridare
non posso far nulla
quando la fame agisce
non resta che constatare
che avremo un uovo in meno
Gentile scorpioncino che ti aggiravi
confuso sotto il letto, ti commemoro qui,
scrivo un ricordo breve, ti dono un epicedio.
Fosti incauto nel disattendere il mio suggerimento
di trasferirti più in là, nel corridoio
dell’antico convento che ospitava me, che ospitava te.
Ti blandii con la voce, ti feci un complimento:
un assoluto portento il tuo lucido nero.
Ti pregai di uscire, ti porsi persino quel giornale
affinché ci salissi, ti accompagnassi fuori, nel buio
corridoio del convento. Ma tu eri confuso,
stordito da tutte quelle mie attenzioni, alla fine
vinse il vigliacco che sono, la tua bellezza
mortificata sotto un tacco. Credimi, la convivenza
mi avrebbe inibito il sonno, che pure fu agitato,
temevo accorressero i fratelli, la tua fidanzata
in lacrime, un’adunata di scorpioni
convenuti per farmela pagare. Ormai così è andata,
non basta una poesia a restituire le gioie di cui si è cibata
la tua vita, non basta una poesia
a cancellare la macchia della vigliaccheria.
Quattro anni.
Per lei così sola pensarono una sorella
la regalarono come il preferito gioco
e nacque così la differenza. Storie
di potere e gelosie. Sorellanze
amate, tradite, disilluse.
Una carrozzina sospinta con sospetto
ingenuo e semplice il giocattolo
subito svelato nel difetto
le bambine non controllano le loro gelosie
col tempo le segretano.
Scava gallerie alla base delle case
la sua amarezza incontrollata.
La ributta in gare di bravura
ammala la sua stessa gentilezza.
Soffre e non lo sa. Si perde
ingovernata in rivoli di invidie.
Costruisce fossati di lontananza
costrutti di dolore non protezioni.
Ti succhierei le pupille a movimenti
lenti, rotatori: piccole biglie
da ingoiare
Fedele al titolo, che si riferisce a una tecnica usata in astronomia per misurare la radiazione elettromagnetica degli oggetti astronomici, il libro di Giusi Montali affresca un universo che si potrebbe definire fantascientifico. A delinearlo, attraverso sei sezioni, è una lingua che fin dall’inizio si definisce “assolta”, verosimilmente dall’accusa di essere inventata, convenzionale. La voce dell’autrice, che si concentra di preferenza in luoghi insoliti (il ventre, l’ombelico), è difatti organica al corpo ed è con il corpo che coincide il soggetto del libro. Preso in una dinamica luce / buio che non procede per contrapposizioni ma si avvolge a spirale, come nell’immagine di copertina, fino a sfociare in un’identità ossimorica (luce nera), il corpo si immerge nell’osservazione della propria espansione, constata il salire della temperatura che lo condurrà a un luminoso dissolvimento. Saltate le relazioni spaziali assodate – la prossemica infranta – l’io-corpo tende verso una fusione con un tu-corpo e con l’intorno, anch’esso coinvolto nello stesso processo (la città scoppia lacerandosi). Più volte ritorna il desiderio di spogliarsi della pelle, di svuotare vene e arterie, finché rimangono le ossa, che a propria volta verranno seminate. Ossessiva è la ricorsività dei termini che alludono alla disgregazione (esplodere-scoppiare-disfarsi-sfaldarsi-lacerarsi-spogliarsi-svuotarsi-aprirsi-dilatarsi-sbriciolarsi-dischiudersi-sciogliersi). Ma è proprio attraverso il processo di smembramento che il corpo saggia la propria composizione portando il lettore a una sorta di auto-indagine anatomica focalizzata su zone non convenzionalmente, e meno che mai poeticamente, deputate all’esperienza sensoriale, e perfino erotica.