È quasi sempre il tormentoso e vivificante intreccio di dolore e piacere a rendere più appassionato l’amore, a innalzarlo “sopra le righe”, come accade nelle poesie scelte per questo numero. Cristina Bove si abbandona a una pacata e sinuosa danza con la morte nella disponibilità ad accogliere le più profonde ferite del sentimento, quelle ferite che diventano una vera e propria culla dell’amore, la sua stessa ragion d’essere nella brevissima e visionaria poesia di Giovanna di Giacomo. Con immagini delicatamente sensuali Claudia Zironi mette in scena la lotta impari con la propria gelosia mentre si accende di tinte fosche il rapporto predatore-preda fotografato nei versi eleganti di Paolo Polvani. Per fortuna la gustosa caricatura della lirica amorosa e dell’amore stesso firmata da Raffaele Ferrario ci consente di stemperare tanto strazio in una risata liberatoria.
Quale fiume sei per lei, la bagnerai
con le stesse acque? Vorrei essere
il suo dito indice e quel lembo di pelle
dietro l’orecchio che inumidirai
con la rugiada, e quella bocca
che accoglierà lo scroscio di cascata
del tuo piacere.
Le regalerai il fiore, quello che a me
è mancato? Vorrei essere il suo sorriso
quando glielo porgerai, inebriata
dal profumo e dalle tue carezze. Vorrei
essere colei che lo riceverà
senza gelosia
sopra la sua tomba.
lui: “Sulle ali leggere dell’amore ho scavalcato questi muri.
Amore non trattiene ostacolo di pietra; Amore quando
a una cosa intende è ardimentoso”
lei: o mazzapicchio! dotto di caucciù
borioso di trombe ficalbe
issando al tocco le tue vele
fili selvaggio nel marsupio imperlato
l’albume dolce
che lo stambugio ti sburra
detergi e dischiuso
nell’urna di ventosa ti ritrai
lui: o passiflora! flusso di cuoi
sfavilli intime nevi
e detriti d’albore si accucciano
nei mulini di glossa
il pendio rigonfio schiuma
in rivoli di delizia
e gli albicocchi madidi
ingoiano singulti di tepore
lei: “Che contentezza potresti avere da me stanotte”
Gli innamorati sanno tenersi anche per i lembi delle ferite
e dondolando lacerarsi di più
ricucirsi di più
avvolti dall’alone del tempo
Vieni, diceva con la voce intinta
nel più profondo miele, vieni che ti
sbrino il cuore, ti sciolgo
questi ghiacci eterni, ti lancio
l’autostima in orbita, in eccesso
di erezione l’ego, ti titillo
la vanità. E intanto pregustava
il sangue come un trofeo di caccia,
uno stendardo, e affilava la lama.
Perché l’amore non è faccenda
per gente sana, t’insinua l’illusione
della felicità da bere a sorsi
ma poi ti atterra, ti divora a morsi.
Una lama sottile, amore d’inverno
precisa-mente per farmi morire
due volte affilata, perché a due parole
ho congiunto la vita, senza pensare
che fosse già andata.
Volevo parole, parole di seta, parole d’amore
volevo che amassi _dal corpo distante_
anche il mio cuore, non solo la mente.
Pensavo, speravo, che fossero quelle
le cose giuste, senza il dolore d’un gioco folle
finito nel niente…
Nasconde la sera il tuo corpo, il tuo viso
mi resta solo quell’altro ricordo: l’amaro del salto
il precipizio giù da un balcone.
Credetti sempre nell’impossibile _questo il mio torto_
nel rivelarti il mio punto debole
il punto esatto per affondare
e quindi scegli una lama sottile
precisa-mente per farmi morire.
Ora ti dico una cosa strana, una di quelle
che poi mi dici che sono matta:
voglio baciare tutte le donne
che hai amato, ma proprio tutte.
Come in una fiaba raccontata da una voce amata, Silvia Rosa si lascia affascinare da un bosco, che qui è più che mai archetipo della vita, del mistero dell’amore, dell’inconscio. Tra gli alberi che alludono a quello genealogico (imperfetto, come si dice nel titolo, per via della morte di tutti i padri e del rapporto controverso con la madre, che è il centro di sé così come lo è l’amore), Silvia lascia orme sul sentiero disagevole dei propri pensieri. Stretta tra la volontà di tornare alla propria essenza autentica e spoglia e un desiderio di amore che si traduce nel vagheggiare abbracci, carezze, sguardi e sfiorarsi di mani, l’autrice documenta il proprio tormentato viaggio esistenziale attraverso vivide e ricchissime immagini di esterni naturali (il bosco), urbani (Trieste e Buenos Aires, le piazze chiamate per nome) e interni (in particolare la camera da letto, con la finestra a suggerire la presenza del mondo fuori) mentre l’accendersi dei colori confligge con la tensione costante verso il bianco, emblema dei due citati desideri (il dissolvimento nella neve e il petalo che sfiora la guancia con tenerezza). Senza rifuggire una disposizione (solo) visivamente adatta alla prosa e talvolta sospendendo l’ultima frase, lo stile fluido e ricercato, denso e musicale porge sensualmente i versi al lettore, con cui il contatto mantenuto grazie all’utilizzo dei pronomi “io-tu” non viene mai meno.