Vivevamo lì da poche settimane. Capitava che mi svegliassi di notte, mettevo fuori le braccia per sentire l’aria, per capire dov’ero.
Fuori il buio era denso, io mi sentivo straniera in quella stanza nuova, tutta per me.
L’avevo desiderata, immaginata, sognata, sperata. Ma ora avevo paura.
Fiori giganti senza stelo ricoprivano per intero le pareti. A volte mi sembrava di sentirli muovere, sfiorarmi i capelli coi loro petali di velluto dai colori sgargianti.
Nel cambio di vita avevo perso la mia nicchia nel letto, quello che si tirava giù la sera col buio, e si chiudeva di giorno. Ora avevo solo le coperte, troppo leggere, per seppellirmici dentro.
Poi un giorno arrivò lei. La madre di mia madre, mia nonna.
Non me lo avevano detto che avrei dovuto dividere la stanza con lei. Ma mia nonna non era come le altre e io ero curiosa e contenta.
Si alzava sempre prima dell’alba, minuta dentro il suo abito nero, sembrava percorrere quello spazio incantato tra il sonno e la veglia, come un personaggio delle fiabe. Poi piccoli gesti silenziosi la portavano fuori dal buio.
La sentivo zappettare in giardino, i suoi fiori, le piante dell’orto, i suoi ricordi, le speranze ancora da farsi. A poco a poco da dentro il mio letto, imparai a riconoscere i rumori dei suoi attrezzi, dentro le sue mani, il tempo della potatura e quello della semina. Mi piaceva ascoltare a occhi chiusi gli odori della primavera, l’arsura dell’estate, lo scroscio dell’acqua sulla terra assetata, la pulizia delle foglie d’autunno, le coperte stese a mantello sui rami degli alberi contro il gelo dell’inverno.
Lei sapeva come abitare la notte senza timore, nel suo letto a due piazze, alto come una montagna. Da quando era arrivata nella mia stanza, non ero più sola col buio. La sentivo spesso sussurrare parole, come avesse accanto qualcuno con cui confidarsi.
Una notte, con il cuore in gola per un sogno cattivo, attraversai lo spazio vuoto tra il mio letto e il suo. Mi arrampicai sulla montagna e mi rannicchiai al suo fianco.
Poi cercai la sua mano, dentro il palmo teneva un grumo vivace di piccole perle che faceva scorrere tra le dita, cantilenando parole sempre uguali, che io non capivo. Mi addormentai cullata dai suoi bisbigli.
Con lei ho imparato a lavorare la terra, quella dei raccolti, e quella dei miei sogni, ho tracciato solchi per metterci a dimora talee di rose e semi di fiducia, ho assaporato il tempo dell’alba per far crescere gesti di cura e immaginazione. Con lei ho imparato ad ascoltare i ritmi delle stagioni e quelli dei cuori, a vedere anche nel buio della paura luminosi silenzi, a scavare dentro ogni piccola fossa per ritrovare radici ancora verdi di sogni perduti.
Gli alberi, i fiori, le piante del mio giardino ostentano ancora all’aria i segni indelebili delle sue cure. Io continuo a svegliarmi di notte, e continuo a ritrovare la sua voce. Infilo la mano sotto il cuscino e mi aggrappo al filo delle sue perle, le sgrano senza parole, fino ad arrivare alla croce ormai consumata dalle sue preghiere. E trovo pace in quello spazio incantato tra il sonno e la veglia, dove lei ancora mi attende.