Dio è amore? Per l’abate Fouré, Dio era innanzitutto parola. E non soltanto la Parola con l’iniziale maiuscola, il celebre logos che era “in principio” e che apre il Vangelo di Giovanni. Nemmeno la solenne parola spesa nella predica domenicale. No, per quest’uomo semplice, nato nel 1839 in un piccolo borgo della Bretagna, poter parlare per conto di Dio voleva dire entrare in contatto con le persone della sua comunità, dare loro conforto e speranza, fino a farsi portavoce delle loro miserie. Significava perfino varcare la Manica per chiedere udienza ai proprietari inglesi della miniera di carbone vicina alla sua parrocchia, al solo fine di sostenere la causa degli operai in sciopero. L’abate Fouré era un individuo di buon cuore, pieno di energie, sempre pronto ad aiutare gli altri con gioiosa generosità, una vera forza della natura. Fino a quando, nell’avvicinarsi ai cinquant’anni di età, Dio non gli impose la più classica delle prove di fede, privandolo di ciò che per lui contava di più su questa terra: la parola. A causa di una lesione cerebrale, l’abate Fouré piano piano divenne sordomuto. Proprio lui, che del verbo aveva fatto la sua spada, si ritrovò in poco tempo tagliato fuori dal mondo, tanto che nel 1893, ormai incapacitato, lasciò il suo ministero. L’abate sarebbe potuto restare soltanto un altro Giobbe fra tanti, un’ulteriore declinazione del tema del “giusto sofferente”, ma la sua forza d’animo era incrollabile. Se doveva fare a meno della parola, l’avrebbe espressa in altro modo: l’avrebbe incarnata nel paesaggio stesso della sua amata Bretagna. Così, senza darsi per vinto, l’abate ormai in pensione cominciò un’opera straordinaria. Rinchiuso nel silenzio della sua malattia, iniziò a scolpire le falesie di Rothéneuf, una piccola insenatura nella frastagliata costa bretone, non lontano da Saint-Malo. La sua fantasia scorgeva nelle pietre della scogliera forme fantastiche, che il suo scalpello liberava giorno dopo giorno dalla roccia in eccedenza. Ecco l’uomo, muto al mondo, che dialoga attraverso la pietra: lo chiamano l’eremita di Rothéneuf, e i curiosi arrivano perfino dalle stazioni balneari di Dinard o di Saint-Malo per vederlo all’opera. Dal 1893 al 1909 l’abate scolpisce senza tregua, senza curarsi di nessuno. Per quanto può, rende ancora dei servigi alla gente del posto, ma la sua vera vita è tutta là, sulle falesie battute dal vento e dal mare, nelle quali sta infondendo la sua anima intera, per chi saprà apprezzarla. L’abate decise di immortalare una storia del posto, quella dei Rothéneuf. In gran parte leggendarie, le vicende che scolpiva nella roccia erano quelle di una famiglia di naufraghi locali del 1500 che riuscirono a vivere di pesca, di caccia, di pirateria e di contrabbando: un soggetto curioso per un ex ministro di Dio. Eppure la leggenda aveva tutti gli elementi in cui Fouré poteva identificarsi: la caparbietà, la resistenza, l’energia, la lotta contro le avversità. Certo, i corsari appartenenti alla famiglia Rothéneuf sarebbero dovuti perire a causa dei loro peccati, divorati da immensi serpenti marini, ma non è difficile scorgere una sorta di affinità elettiva fra l’abate, imprigionato ma non piegato dal suo handicap, e i battaglieri antenati locali. Così Fouré scolpì all’inizio una cinquantina di personaggi. Con il tempo, la sua opera divenne sempre più titanica: abbracciando ormai circa 500 mq di costa, le sculture seguivano l’andamento delle crepe e dei sassi, e finivano per mostrare l’ultima disperata lotta dei Rothéneuf contro i mostri che l’Inferno aveva inviato per ghermirli. Durante quei sedici anni di instancabile lavoro, proseguito fino alla morte, l’abate Fouré incise nella roccia un testamento artistico impressionante: il suo giardino di pietra conta quasi trecento personaggi suddivisi in diversi quadri, alcuni sacri e altri decisamente profani (come quello in cui il personaggio di Gargantua Rothéneuf prende a calci nel sedere sua moglie), in un intricato e, per molti, esoterico complesso scultoreo. L’abate Fouré non era certo Michelangelo. Possiamo catalogare il suo lavoro come arte naïf, o come outsider art, anche se questi termini non si scrollano di dosso quel retrogusto di presuntuosa sufficienza accademica. Ma ancora oggi le statue scolpite nella pietra da questo umile abate sordomuto scrutano, instancabili, l’orizzonte dell’oceano, immote sulla falesia di fronte all’innalzarsi misterioso delle sue maree e alla perenne violenza delle sue onde. Sembrano voler significare che, quando si conosce l’estasi, non c’è bisogno di parole per esprimere l’amore.