“Quel bastardo, non esiste!” esclamava Hamm in Finale di partita di Samuel Beckett. Perfino chi ne nega l’esistenza è chiamato a fare i conti con Dio ed è con lui che dialogano i poeti presentati in questo numero. Gianmario Lucini, Angela Grasso e Eva Laudace pongono l’eterna domanda circa la responsabilità di Dio nei confronti della violenza e offrono tre diverse prospettive. Tramite un verso-cesura in cui si profila l’ombra di caccia-bombardieri, Gianmario Lucini contrappone gli spazi senza confini di cielo e mare che Dio ha dato ai nostri sogni al tribolare nelle trincee di un’umanità che ha scelto di allontanarsi da lui. Nella sua poesia grafica, Angela Grasso lascia intravvedere una complicità ancora possibile con Dio mentre gli chiede spiegazioni della sua indifferenza riguardo alla morte, materializzata nella carcassa di un uccello sul davanzale. Ogni sintonia scompare nella scrittura dura e pregnante di Eva Laudace, che nella rinuncia alla preghiera sancisce l’incomunicabilità tra l’uomo e un Dio che la caduta implacabile dei birilli fa percepire più crudele che noncurante. Più privato è il rapporto con il divino che emerge nei componimenti di Antonella Taravella e Miriam Bruni. Con la sua scrittura ricca e compatta Antonella Taravella mima un ripiegamento su di sé nell’intimità di una sera tra le mura domestiche alla ricerca di una luce interiore e un rifugio dal dolore e dall’amarezza. Mistica e sensuale, anche nel disegnarsi dei versi sulla pagina, è invece l’unione cui aspira Miriam Bruni: nelle sembianze del suo figlio, Dio assume un corpo da amare fin nei minimi dettagli con delicatezza e tenera sottomissione.
Tutti se ne andavano giù
uno dopo l’altro
birilli
stesi dalla stessa vertigine.
Quando anche lei se ne andò
smisi di pregare.
Non abbiamo ali: nella sua saggezza
Dio ci fece bipedi lenti, non pose
cavalli di frisia fra terra e terra
se non il profondo pensiero del mare
ed imparammo a varcarlo, il mare
fin dove si spalanca l’infinito
imparammo a volare intensamente
chiudendo gli occhi e ascoltando il vento
(fossimo rimasti aviatori di sogni...)
ed è davvero un tempo buio, il presente
che ci costringe a imitare le talpe
scavare vie nascoste all’occhio dei falchi
sotto confini che Dio non impose
scaviamo la rena soffice che frana
tagliandoci ogni ponte con il sole
per poco pane, un’arma per uccidere
e illuderci così di sopravvivere.
mi chiedono della fedeltà e dell’amore fra le mura di casa
un giorno schiarito dalle mani spalancate sul cuore
nel battermi il petto su quel Dio al sicuro
e ci credo nelle mani giunte
in quel dolore che sviene lungo le gambe
sciogliendo il sale fino ai piedi
come un migrante che si dispone nell’atto
della parola al grembo
mi rendo povera quando s’avvelena la carta
nei punti ciechi dove la memoria
resta sospesa – attratta dalla luce bassa della sera
Stendersi qui,
vicino a te,
costole a terra.
Puoi appoggiarlo
il piede
sul mio collo.
Sui capelli
tagliati dopo anni.
Lo so, cammini scalzo,
ma è che di Te mi fido
e amo il tuo polso,
la caviglia, e quel tuo
muoverti nel mondo. E il saio
cucito da tua madre
con infinita dedizione.
Ricoprimi, Yeshua,
di quelle vesti
di pura Luce
che mostrasti
sul Tabor. Riposami,
ti prego, solleva
per un poco
la mia croce,
bisbigliami l’amore.
Vedo
vita in decomposizione
nella carcassa di un uccello (qualunque)
᷆ ᷇ [lì, sul davanzale di un piano disabitato, da almeno quattro mesi]
Alla bava di vento febbrile
[di febbraio forse?]
chiedo notizie tue di TE©
Quale pasticciaccio,
mio DIO©,
la vita?
ME >> DIO
Volatile IO
Bruciavi le lettere
delle scritture non doveva restare che il battito.
Alessandro Assiri scrive versi che si dilatano e a volte sembrano sconfinare nella prosa, ma è solo un’illusione ottica perché la sua scrittura possiede le caratteristiche di musicalità, densità e scarto del linguaggio che sono proprie della grande poesia. Il suo allungarsi sulla pagina ampia riproduce l’avanzata di giovani in una piazza: una parola, quest’ultima, che ricorre più volte, invadendo il tempo del ricordo che la cesura della sezione recante il titolo del libro sembra far scomparire come se si ripartisse da capo. Ed ecco che lo sciancato e Caterina, terze persone che come doppi arrivano a spegnere l’io-tu scelto fin dall’inizio, dichiarano la sconfitta già temuta: la fine della possibilità di un mondo ideale dal quale “non ci si sposta, si cade” e il fallimento della poesia stessa (“e io come scrittore non valevo già un cazzo”). Il ripiegarsi di ciascuno di essi sulla propria fisicità disagiata si sostituisce agli amplessi quasi tangibili delle pagine precedenti e il claudicare, il rannicchiarsi e il rotolarsi impongono un arresto alle corse che fino a quel momento avevano trascinato con sé il lettore. Corse che sono fughe dalla polizia durante le manifestazioni ma anche scoppi di vita, inseguiti dal tempo e con i dubbi e gli instancabili pensieri sempre alle calcagna. Sotto un cielo visibile in cui sventolano bandiere scarlatte, i compagni di strada sono amici chiamati per nome ma anche artisti – pittori, scrittori, musicisti – evocati con la stessa familiarità. Nelle parole scritte e in quelle che nelle tavole sono intrappolate nelle bocche spalancate di volti a metà strada tra Munch e Bacon prende forma la tensione sofferta verso un ideale inafferrabile. Un ideale che coincide con una vita libera ma anche dotata di senso, stretta nell’assedio di convenzioni sociali rispecchiate dai messaggi pubblicitari ai quali il linguaggio della poesia costantemente si ribella. Emerge un dissidio interiore tradotto in una scrittura viva e nervosa, densa di grumi di immagini e pensieri da sciogliere leggendo e rileggendo. Un dissidio in cui – specie chi ha una coscienza politica – si identifica immancabilmente, e ne soffre.
Alessandro Assiri, Lo sciancato e Caterina, Edizioni CFR 2014