1993. Kevin Carter è un fotografo. E decide di fotografare una delle realtà più complesse del mondo, che è anche la sua terra. L’Africa. Dove quotidianamente si muore. Si muore in tanti. Nel 1993 come oggi. Per fame, guerre, malaria, ebola, Aids. E il mondo lo sa. A volte interviene. A volte no. Ma Kevin Carter non è come il resto del mondo. È un giovane Ulisse, spinto dal desiderio di conoscenza, e da Johannesburg vola in Sudan, quando di morti il suo obiettivo ne ha già riprese molte. Negli anni ’80, insieme ad altri costituisce il Bang Bang Club, che in Sudafrica immortala le crudeltà della guerra civile: pistole puntate alla testa, omicidi a colpi di machete, il “supplizio dello pneumatico” che lui, Carter, è il primo a fotografare…
Ma nessuna delle sue immagini ha la stessa forza espressiva di questa: il campo è completamente sgombro, fatta eccezione per due figure; in primo piano una bambina rannicchiata su se stessa; il volto nascosto tra le mani, la magrezza impressionante; poco dietro di lei un avvoltoio in attesa paziente. Questa foto è tutta l’Africa: arriva dritta allo stomaco e rappresenta una condizione che, dal 1993, si è evoluta poco o nulla. Perché la fame esiste ancora, e a patirne le conseguenze sono soprattutto le donne e i bambini. 850 milioni di persone nel mondo. Molte di esse africane, appunto. Questa foto è anche il destino di Kevin, che riceve il Pulitzer e al tempo stesso è sommerso da un mare di domande e di critiche. Che ne è stato della bambina? L’hai soccorsa? Perché l’hai fotografata anziché prestarle aiuto? Che razza di uomo sei? Ce l’hai un briciolo di sensibilità?
La risposta di Carter è contenuta in un biglietto di poche righe: “Il dolore di vivere prevale sulla gioia a tal punto che la gioia non esiste”. Sono le ultime parole che scrive prima di suicidarsi. Perché è il primo a essere sconvolto dalle sofferenze che ha visto. E che ha fotografato, facendole conoscere a tutti. “Niente è più convincente ed espressivo di ciò che si può vedere con i propri occhi. Sebbene si possa eccellentemente descrivere un attacco della polizia armata a una manifestazione operaia, un corpo di un operaio calpestato dalla polizia a cavallo o un negro linciato da un brutale sanguinario carnefice, mai un’immagine disegnata, in forma verbale o scritta, sarà convincente quanto può esserlo la riproduzione fotografica. Il fotografo è il più obiettivo dei grafici. Riprende soltanto ciò che, nell’attimo dello scatto, si presenta al suo obiettivo. E un’immagine fotografica è comprensibile in tutti i Paesi, in tutte le nazionalità, come anche al cinema, nonostante la lingua, il titolo e le spiegazioni”.
Nota. Carter non seppe dire quale fosse stato il destino della bambina. L’ha rivelato El Mundo qualche anno fa. La bambina era un bambino: il suo nome era Kong Nyong. In quell’occasione sopravvisse, perché inserito in una missione Onu. Ma morì quattro anni dopo, di febbre.