Una bellissima donna fissa il suo sguardo nel suo accessorio di bellezza, lo specchio. Si mira e si rimira, senza nemmeno accorgersi che l’immagine che viene riflessa non è il suo leggiadro volto, ma il deretano di un diavolo che la sbeffeggia, da dietro le sue spalle. Le incisioni antiche spesso mostrano questa paradossale e satirica situazione: lo specchio è strumento di vanitas, quella vacuità che ci porta a dar peso alle forme esteriori, e valore a ciò che presto deperisce e si disperde con l’arrivo della Morte. L’antico monito è chiaro – innamorarsi delle proprie sembianze passeggere non è che un aggrapparsi all’illusione.
Eppure, al contrario, lo specchio è da sempre anche oggetto sapienziale: rimirare se stessi significa conoscersi, perfino rendersi coscienti dei propri limiti e della propria transitorietà. Ecco perché lo specchio è spesso rappresentato nelle mani della Prudenza, o della Filosofia. Cosa riflette in questo caso lo specchio? La verità, la sincerità, il contenuto del cuore e della sua purezza.
È questa ambivalenza a reggere il valore simbolico dello specchio: speculum è la radice etimologica di “speculazione”, attività altamente intellettuale che può rivelarsi essenziale oppure ingannevole. Come tutti gli oggetti magici, il suo potere varia a seconda di chi lo utilizza. Lo stesso oggetto nelle mani di un sapiente o di uno stolto ha un effetto completamente opposto: bisogna essere consapevoli del rapporto misterico fra una cosa e la sua copia, il suo doppio. Anticamente si credeva che gli specchi potessero rubare l’anima, tanto che vigeva l’uso di non farli vedere ai bambini, per paura che ne abbreviassero la vita, o di coprirli quando c’era un morto in casa, affinché il suo spirito non vi rimanesse intrappolato; e allo stesso tempo potevano dischiudere i segreti più intimi del cuore, e addirittura fungere da protezione (come nel caso dell’incontro con i temuti basilischi, o con le creature demoniache che non proiettano alcun riflesso, oppure ne rimandano uno talmente orrendo da smascherarle).
Come un tempo i bacili d’acqua erano strumenti di divinazione, così gli specchi, con il loro rimando a un misterioso mondo capovolto, potevano divenire amuleti contro gli spiriti maligni. I graffiti decorativi sugli specchi etruschi in forma discoidale, fatti di bronzo lucido e d’argento, illustravano temi mitologici che lasciano supporre un loro utilizzo ben più complesso del semplice uso cosmetico.
Anche in terre lontane, come il Messico, gli specchi avevano un valore esoterico. Costruiti a partire dal vetro lucido e vulcanico dell’ossidiana, rimandavano al dio Tezcatlipoca, che significa letteralmente “specchio fumante”. Gli sciamani siberiani sapevano cogliere il riverbero dei due grandi specchi celesti che, nella loro cosmologia, riflettevano l’universo. Nella tradizione shintoista troviamo il celebre specchio della dea del Sole Amaterasu, e specchi sacri sono conservati in diversi santuari giapponesi, lontano dagli sguardi dei comuni mortali. Fra i seguaci di Siddhartha l’anima dell’uomo deve riflettere “la natura del Buddha”, oppure “il Cielo e la Terra” per i taoisti, e via dicendo.
Anche in Occidente, così come Dio ha creato l’uomo “a sua immagine e somiglianza”, così il cuore dell’uomo deve divenire “specchio che riflette Dio”. L’anima come specchio si trova già in Platone e Plotino, e tutto il mondo, in un certo senso, è sempre stato riflesso del suo Creatore. Allo stesso modo, lo specchio incarna il famoso motto della Tavola Smeraldina di Ermete, “ciò che è in basso è come ciò che è in alto”.
Eppure nell’iconografia occidentale, dicevamo, lo specchio è ambivalente, simbolo sia solare sia lunare perché il riflesso è anche illusione: ci si può smarrire, o ritrovare se stessi al suo interno. Lo specchio è nella mano delle sirene, come emblema di lussuria (voluttà e vanità), ma si ritrova anche come attributo delle virtù che presiedono alla conoscenza - fino a divenire in epoca cristiana addirittura un accessorio mariano, perché nella Vergine Dio ha voluto specchiarsi, creando un’immagine di Sé, suo figlio, senza violare o alterare lo specchio stesso.
L’intera Creazione, secondo il teologo Jacob Böhme (1575–1624), sarebbe una sorta di gigantesco specchio, ovvero un enorme occhio che è in grado di ammirare se stesso. Viene in mente il momento sublime, nella Colazione dei Campioni (1973) di Kurt Vonnegut in cui, vedendo un graffito su un muro che domanda “Qual è lo scopo della vita?”, il protagonista esclama stizzito “Essere gli occhi e le orecchie e la coscienza del Creatore dell’Universo, cretino!”.
Questo è lo specchio: ci porge il nostro vero volto, quello che non potremmo mai vedere altrimenti, proprio come un dente non può mordere se stesso. “Qualcosa di noi è esterno, perché noi stessi nello specchio siamo esterni a noi. Ciò suscita la primordiale sensazione che l’anima sia stata rapita. Le persone che per molto tempo si guardano allo specchio, si sentono affascinate da qualcosa che le paralizza (...). Non tutti sopportano di guardare la propria immagine riflessa. Alcuni, come il mitico Narciso, si smarriscono contemplando la propria immagine riflessa nell’acqua. Altri ritornano in sé soltanto dopo una completa trasmigrazione, quando cioè, una volta contemplatisi allo specchio, hanno recuperato la loro effettiva esistenza” (E. Aeppli, I sogni e la loro interpretazione, 1943).
Originariamente per specchiarsi serviva l’acqua, e questo elemento è intimamente connesso alla vera essenza delle cose, al loro continuo trasformarsi. Per questo le visioni di Jean Cocteau – artista più di ogni altro affascinato dagli specchi – pullulano di miroirs acquosi che è possibile attraversare e che danno accesso a mondi paralleli: d’altronde egli stesso afferma nel Testamento di Orfeo (1960) che ciò che gli specchi mostrano è “la morte al lavoro”, ovvero il nostro inesorabile scivolare verso l’abisso.