Un uomo sale il ripido sentiero che porta verso la cima gelida di una montagna. La fatica gli arrossa il volto, procede ansimante, poiché sta portando sulle spalle un carico particolare: legata alla sua schiena c’è la vecchia madre, malata. Il vento freddo gli sferza il viso, ma lui non demorde – sa che ciò che sta per fare va fatto. Si inerpicherà fino al grande ghiacciaio, sull’altipiano oltre le nubi, dove le pietre sembrano lame di roccia e le correnti d’aria frustano impietose le lastre di neve indurita, e lì la abbandonerà.
Quell’uomo ama sua madre, le deve tutto. Ma ormai è troppo vecchia, troppo malata. È diventata un peso morto, un inutile fardello per i figli che già faticano a sostenersi con il difficile lavoro nei campi. Così, seguendo la tradizione, ha deciso che è venuto il momento che sua madre muoia.
I due procedono a rilento; a un certo punto passano sotto ad alcuni alberi le cui bacche stanno germogliando. La vecchia madre, che fino a quel momento sembrava assorta, allunga le braccia e coglie i germogli, se ne riempie le mani, le tasche. Arrivano infine sul ghiacciaio. Mentre il figlio cammina, l’anziana donna comincia a spargere i germogli, lasciando una lunga scia di boccioli sulla neve.
Sorride. Dopo averla abbandonata, suo figlio potrà ritrovare facilmente la strada di casa.
Questa storia buddista si basa su un’antica leggenda orientale. Si racconta infatti che, in tempi remoti, in Giappone venisse praticato il cosiddetto ubasute. Consisteva nell’abbandono di un parente anziano o infermo: non essendo più in grado di offrire il proprio lavoro alla famiglia, diventato ormai un peso inutile, il vecchio veniva portato sulla cima di una montagna, oppure in un luogo ugualmente ostile e remoto, e lasciato lì a morire. Si dice anche che l’ubasute venisse talvolta ordinato dagli ufficiali feudali, e che fosse più comune durante i periodi di carestia.
L’ubasute ha ispirato nei secoli storie, poemi, koan, allegorie, e anche il cinema ne è rimasto affascinato: le immagini in questo articolo sono tratte dallo splendido La leggenda di Narayama (1958), di Keisuke Kinoshita. Il remake di questo film, girato nel 1983 da Shohei Imamura, ha vinto la Palma d’Oro al Festival di Cannes. In Goryeojang (1963), del coreano Kim Ki-young, il figlio decide invece di ribellarsi alla tradizione, e ritorna a casa con la madre.
Si tratta soltanto di una leggenda, certo. Ma le leggende ci parlano di noi stessi, anche quando sono dolorose come questa. Ed è difficile non rimanerne toccati e turbati, oggi che la vecchiaia è diventata un tabù da occultare dietro le mura di un ospizio – la nostra moderna versione della montagna desolata.